È ritornato, come un boia notturno. Ha sferrato l'attacco nell'ora massima dell'intimità. Trenta secondi è l'inezia che gli è bastata per lasciare nell'aria una litania di requiem aeternam: Amatrice, Accumuli, Pescara del Tronto, Arquata, Ascoli. Dopo un terremoto, nessuna storia è più stata la medesima: Una volta che sei stato dentro ad un terremoto, anche se sopravvivi senza un graffio, sai che esso, come un colpo al cuore, rimane in seno alla terra, nella sua orribile potenzialità, sempre pronto a tornare e colpire di nuovo, con una forza ancor più devastante. Per chi guarda la storia dall'alto, la prospettiva è orrenda, un raddoppio di rovina: il paese è un immane cimitero d'arte, di memoria, d'affetti, d'immagini, di costumi, di corpi. Per chi, invece, la guarda dal basso, l'angolazione muta quasi d'aspetto: è come se, cadendo il mondo, una risposta di salvezza si fosse liberata, librata in volo.
Don Giovanni d'Ercole è il vescovo dei terremotati. Mandato a L'Aquila all'indomani del tragico terremoto del 2009: «La Chiesa, don Giovanni, ti manda in quella terra martoriata per organizzare la speranza» furono le parole dell'omelia nel giorno della sua ordinazione episcopale – si ritrova oggi vescovo nella terra d'Ascoli, torturata dalla stessa furia naturale. Il vescovo Giovanni è lo straccio di Dio nella terra ascolana: i telegiornali l'hanno ritratto con la camicia impolverata, lo sguardo di un padre turbato, che a Dio non risparmia alcun perchè. Con in mano la pala e sulla testa la mitria, s'è ficcato dentro la morte del suo popolo per tentare d'intravedere, anche in lontananza, la strada della salvezza. Per organizzare la speranza in piena notte: «Ho visto il buio e ho sentito le grida della gente – dice don Giovanni raccontando cosa gli si è apparso al suo arrivo a Pescara del Tronto -. Poi scosse di terremoto. Solo con le luci dell'alba ho potuto rendermi conto che il paese era stato raso al suolo, il paese era distrutto completamente». Nell'animo porta ancora lo smacco di un'inchiesta nata ai bordi del sisma in terra aquilana: sarebbe stato semplice, oltreché prudente a detta di tanti, restarsene ai margini, incoraggiare dal bordo campo dell'episcopio, bisbigliare una misericordia della storia. Ma per chi è nato straccio, sarà sempre la polvere il suo salotto prediletto. Per sporcarsi di essa, per tentarne la cancellazione, per rinfocolare le braci rimaste accese sotto: un grido, una mano tesa, un soffio che ancor spira.
Dall'alto la Croce è peso e dolore: pievi cadute, ammassi di pietre, speranza fulminata. Dal basso la Croce è una segnaletica: una voce soffusa, una traccia d'affetti, una carne snervata. Dall'alto nasce il racconto, dal basso si accende una ripartenza che, dall'alto, pare inaudita: «Tra le tende, dopo il terremoto, i bambini giocano a palla, ai quattro cantoni, a guardie e ladri, la vita rimbalza elastica, non vuole altro che vivere» G. Rodari. A Pescara del Tronto è crollato tutto. Anche la Chiesa, solo il crocifisso che il Vescovo ha recuperato camminando tra le macerie rischiando la stessa vita, e l’immagine della Madonna del Soccorso hanno retto l'urto, rimanendo in piedi: «Guardare al cielo, pregare, e poi avanti con coraggio e lavorare. Ave Maria e avanti» spronava don Orione, santo terremotato.
La sismologia non sa dire il quando di un sisma, ipotizza il dove. La fede non azzarda né il quando né il dove, rimane profezia del come. Di come ripartire: «Sono andato e sono stato con la gente» Per tentare di allacciare il suo popolo all'azzardo che fu dei vecchi profeti: il terremoto è come un'aratura, per preparare il terreno ad una nuova semina, che si vuole diventi la migliore possibile. Detto con la polvere sulla camicia che, da quelle parti, è l'odore di un gregge silurato da un'imboscata notturna. Le medesime parole, dette dall'alto dell'elicottero, null'altro sarebbero che un'iradiddìo di bestemmie.
Don Marco Pozza