XXIV del Tempo Ordinario 11 Settembre 2016
Jubilaeum Misericordiae: immensa grazia e opportunità che ci è data per passare dal Dio forse piccolo che portiamo nel cuore a quello di Gesù. E questo Anno Giubilare si sta celebrando non tanto nella imponenza delle celebrazioni, ma nella profondità della riflessione e dei piccoli gesti, nella moltiplicazione delle porte sante, perché la salvezza è per tutti. Anche noi, in questa Chiesa del Cimitero, avremo la gioia di aprire la Porta Santa della Misericordia Domenica 30 ottobre e lasciarla aperta per tutte le celebrazioni dei Santi e dei Defunti.
In questi mesi, però, abbiamo attraversato momenti forti, brutali, destabilizzanti, che hanno come innervato la nostra riflessione, tolta dal mondo delle idee e resa accessibile e autentica. Il terrorismo islamico, l’esodo dei migranti e, da ultimo, il terremoto che ci ha ricordato che siamo polvere, che la vita va colta qui e ora, che vale la pena vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, l’unico. In questa vigilia dell’inizio delle scuole, almeno per gran parte delle regioni italiane, in questo anniversario dell’abbattimento delle torre gemelle, la liturgia, ancora, ci propone il Vangelo che ci ha accompagnato in questo anno giubilare, il cuore della riflessione di Luca, la parabola della misericordia declinata in tre atti… Così, tanto per insistere.
Primo atto: la pecora.
Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Nessuno, Signore, fidati. Nessuno corre il rischio di lasciare le novantanove pecore per faticare andando a cercare la ribelle o la svampita. Nessuno lo fa. Non la società, che ormai ha smarrito la quasi totalità delle pecore, fabbricando solitudine. A volte nemmeno la Chiesa, più preoccupata di salvare il salvabile che di trovare atteggiamenti e linguaggi nuovi per dire Cristo agli smarriti. Preferiamo le nostre certezze. Il danno minore. L’assenza del rischio. Preferiamo non mettere in discussione le cose acquisite, anche nella fede. Invece tu vai. Ti stanchi per cercare quella pecora, per cercare noi, per cercare me. E quando la trovi non sfoghi su di lei la stanchezza e la rabbia per una giornata passata inutilmente a correre sulle colline. Non la bastoni, irritato, coma avrei fatto io. La prendi sulle spalle. Le eviti ulteriore stanchezza. Una pecora, non un agnellino. Un bel peso. Un’ulteriore fatica. Così è Dio. Il Dio di Gesù, che continuamente cerca. Mi cerca, ovunque io mi sia perso.
Secondo atto: la moneta.
Ma certamente faremmo come la massaia distratta che ha perso una delle dieci monete lasciatagli dal marito per fare la spesa grande. Sa bene, lei come noi, il valore del denaro, la fatica nel guadagnarselo. Allora cerca, come cercheremmo noi. Ribalta casa finché non trova quel benedetto biglietto di carta moneta scivolato dietro il divano. E, lei come noi, sospira piena di sollievo. Solo che, dopo, fa un’altra cosa. Chiama le vicine, racconta la vicenda. Prepara un caffè e un dolce, poi apre una bottiglia di liquore. Spende più della moneta ritrovata. Perché, dice Gesù, Dio è così. Esagerato. Sempre. Non ci ama col bilancino, mai.
Terzo atto: i due figli.
Figli tristi, quelli della parabola del Padre misericordioso, così simili a noi. Che stravolgono e tradiscono il volto del Padre. Lo annientano, lo umiliano. Pensano che sia un despota da sfruttare, da cui fuggire, da obbedire per averne un tornaconto. La fame spinge il primo a rimpiangere le carrube di cui si nutrono i maiali che pascola, come l’ultimo dei servi. Nessuno gliene dava. A nessuno sta a cuore la sua morte. Solo al Padre. La gelosia spinge il secondo ad accorgersi che non aveva bisogno di elemosinare un capretto per far festa con gli amici. Tutto ciò che è del Padre è già suo. Chissà se, alla fine capiranno chi è il Padre. Chissà se noi lo capiremo.
Convertirsi significa passare dalla nostra prospettiva a quella inaudita di Dio e questo significa fare come Lui. Noi diciamo: “Ti amo perché sei amabile, te lo meriti, perché sei buono”. Dio dice: “Ti amo con ostinazione e senza scoraggiarmi perché so che il mio amore ti renderà buono”. C’è una bella differenza! Il suo amore è gratuito, libero, pieno. Dio non ci ama perché siamo buoni, ma amandoci senza misura ci rende buoni, aprendoci alla speranza e alla conversione. L’esperienza del peccato diventa occasione per un incontro più duraturo e autentico con questo Dio che ci perseguita con il suo amore. Luca sa che l’esperienza di sofferenza interiore che è il peccato, lo smarrimento, la lontananza da Dio e da noi stessi, può diventare un incontro che salva, che ci aiuta a ripartire con maggiore autenticità e coraggio. La nostra fede non si fonda sulle nostre capacità, sulle nostre devozioni, sui nostri sforzi, ma sull’ostinazione di Dio che ci cerca.
Gli Ebrei usavano il termine hesed per indicare l’amore di misericordia di Dio verso il popolo. Dio manifesta questa bontà innanzi tutto scegliendo Israele come suo popolo; prescindendo dai suoi meriti, stabilisce con esso un patto di fedeltà e di amore. Un amore che non è condizionato dalla nostra risposta.
La risposta di Israele all’amore di Dio, che non sempre è abbondante, ma pur esiste, viene ancora identificata con lo stesso termine hesed che in questo caso significa amore filiale, riconoscenza, fedeltà. E anche quando Israele non osserva l’alleanza, Dio rimane fedele e perdona esercitando sempre la hesed, la bontà di misericordia.
Per questa bontà il popolo, anche se infedele, potrà sempre sperare nell’aiuto di Dio.
La bontà diventa così misericordia verso tutti.
Solo l’amore è capace di trasformare, ma ad una condizione: di essere gratuito e libero.
Nel Vangelo di oggi la rivelazione cristiana raggiunge uno dei suoi vertici: possiamo anche conoscere a memoria queste parabole, ma ogni volta che le leggiamo, si aprono per noi orizzonti nuovi. A noi, che ci poniamo il problema di Dio, di chi è Dio, di come parlare di Dio, Gesù parla di Dio, ci introduce nell'intimità più profonda di Dio. Eppure il nome "Dio" non è presente in tutto il capitolo: è solo sfiorato al termine delle prime due parabole con l'accenno alla "gioia in cielo" e agli "angeli di Dio". Ed è la prima, grande, sconvolgente lezione che ci viene da questa pagina: Gesù non vuole farci una lezione su Dio misericordioso, ce lo rende visibile, ce lo rende vivo facendoci gustare la gioia del sentirci cercati quando ci siamo smarriti, del sentirci amati quando noi stessi non ci amiamo più e siamo introdotti in un'esperienza che noi non ci saremmo mai immaginata possibile. Gesù oggi non ha parlato di Dio, lo ha mostrato: è Lui la Parola di Dio. Non ha elaborato trattati sull'esperienza di Dio, lo ha fatto sperimentare. Gesù ha aperto la via ad un modo nuovo di parlare di Dio: narra Dio vivendo la sua storia che è condivisione con la storia di tutti gli uomini. Gesù parla un linguaggio che muove ciò che di più profondo sta nell'uomo e sentiamo che in realtà sta parlando di Dio. E raggiungiamo così il cuore dell'esperienza cristiana: in Gesù Dio si è fatto uomo e quindi può essere narrato da Lui. Narrando Dio con la propria vita, Gesù mette in crisi le immagini di Dio che gli uomini si costruiscono e tutte le proiezioni che tendono ad attribuire a Dio un volto fatto ad immagine dell'uomo, mentre Gesù, nel cuore della sua narrazione di Dio mette l'annuncio dell'infinita misericordia di un Padre, totalmente gratuita, sconvolgente fino alla follia, che scandalizza gli scribi e i farisei. Proprio per questo Gesù vive e narra le sue parabole, per mostrare che l'amore che perdona è il senso della sua vita e per dire ai suoi accusatori che il cammino che egli sta percorrendo, per il quale essi lo condannano, è il cammino di Dio. Per dire agli uomini che Dio li ama come un padre ama i suoi figli, non può stare lontano da loro: bisogna che diventi uno di loro, che si sieda alla loro mensa. Se si sono allontanati da lui, bisogna che egli li raggiunga sulla strada sulla quale si sono perduti: bisogna che si incammini sulla strada del figlio che ha lasciato la casa del padre. Per Gesù questo è l'amore: è questo il dinamismo che lo spinge verso coloro che sono perduti.
Il grido di festa del Padre fa eco al Vangelo di Pasqua: "Tuo fratello era morto ed è tornato in vita". Ma sappiamo che questo progetto si realizza attraverso la follia del Figlio che si perde sulle strade del mondo per cercare i fratelli perduti, che muore in croce per essere andato a cercarli. Raccontando la parabola Gesù narra la sua storia, la storia dell'umanità e narra Dio: narra la nostra storia con Lui che continua a perdersi con noi e per noi, per fare con noi la storia di Dio. Leggendo questa pagina corriamo il rischio di ridurla ad un insegnamento morale: è invece il lieto annuncio di Gesù, Cristo, crocifisso e risorto, la follia dell'Amore vissuto da Gesù, per narrarci che Dio è solo Amore.
Dio è misericordia dice Luca...
Dio è misericordia anticipa il suo maestro Paolo nella seconda lettura. "Mi è stata usata misericordia" dice Paolo nella lettera a Timoteo, tracciando un ritratto della sua condizione prima della conversione, ossia prima di essersi incontrato con Gesù Risorto sulla via di Damasco, e continua: "Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma Gesù ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua grandezza d'animo, come esempio di quanti avrebbero creduto in lui".
Costruttore di questo ponte fra Dio e gli uomini è Gesù stesso, realizza la funzione di intercessore che si sobbarca Mosé nei confronti di un popolo infedele. Si trattiene sul monte Sinai a parlare con Dio, ricordandogli le sue promesse di un tempo, quando aveva giurato ad Abramo di fare della sua discendenza un grande popolo.
Ricordati allora anche oggi, Signore, della tua hesed, della tua misericordia.