XV del Tempo Ordinario 10 Luglio 2016
Il Signore Gesù è in viaggio verso la Città Santa, verso Gerusalemme. Questo viaggio, come ce lo presenta il Vangelo di Luca in queste domeniche, non è astratto e lontano dalla vita; passa per le strade degli uomini. Ha percorso le vie della Palestina allora e oggi percorre le nostre strade, le vie di questo mondo.
Sin dall'inizio della sua vita pubblica, secondo l'evangelista Matteo, "Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il Vangelo del Regno e guarendo ogni malattia” Mt 9,35. Davvero il Vangelo, è Gesù stesso, come indica l’AT: "Non è nel cielo, perché tu dica: “Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo? Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?" Dt 30,12-13. Il Signore Gesù è vicino, molto vicino. La sua parola non è lontana da noi, è concreta, come è concreta la nostra vita.
Un dottore della legge, probabilmente infastidito dall'affermazione di Gesù riportata da Luca qualche riga prima: "Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli" v.21, gli pone una domanda "per metterlo alla prova", cioè per vedere come l'oscuro rabbi di Galilea, che non proveniva da nessuna scuola teologica riconosciuta, se la sarebbe cavata nel rispondere ad una questione allora molto dibattuta. Costui interroga Gesù con parole alte e vere: "Maestro, che cosa devo fare per avere la vita eterna?" Poiché Gesù lo rinvia alla Scrittura e al comandamento dell’Amore, ma soprattutto lo esorta a mettere in pratica quanto vi è comandato, egli, "per giustificarsi", cioè per riportare il discorso sul piano teorico, pone un nuovo interrogativo circa un'altra questione assai discussa dai maestri giudei: “E chi è il mio prossimo?”. Nell'ebraismo si andava infatti dalle posizioni più rigide, per cui si considerava prossimo solo l'appartenente alla propria setta o gruppo religioso (farisei, esseni, zeloti, ecc.) a quelle molto aperte per cui l'amore doveva andare da uno del proprio popolo fino al nemico e persino allo schiavo. Con la sua risposta Gesù non si colloca in nessuna delle posizioni attestate; ma, come è sua abitudine, reimposta la questione stessa, operando addirittura un capovolgimento: la domanda cui i maestri giudei davano risposte diversificate diventa per Lui la domanda sulla capacità di vedere i bisogni dell'altro, provarne "compassione". Ciò che conta non è delimitare il confine con chi è prossimo e chi non lo è. La prossimità del Vangelo non ha steccati, il prossimo non è etichettabile.
Gesù comunque non gli risponde con un lungo discorso teologico o legalista… gli dice semplicemente: "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico". Parla di una strada che tutti conoscono, e narra un fatto che probabilmente spesso capitava. C'è un uomo: di lui non si sa nulla, se non il suo cammino: da Gerusalemme a Gerico. Un percorso pericoloso, trenta chilometri di strada e quasi mille di dislivello. Su questo cammino l'uomo incontra i briganti, lo spogliano, lo picchiano, lo lasciano mezzo morto. Passano un sacerdote e un levita. L'uomo mezzo morto rimane lì. Nessuno dei due si ferma. Nessuno dei due si occupa in nessun modo di lui. Sono il fior fiore della società israelita, eppure passano oltre. Non si dice il motivo per cui proseguono il cammino senza fermarsi. Il sacerdote e il levita sono fedeli ai loro impegni rituali. È facile pensare che dovessero andare al tempio e quindi non possono "sporcarsi le mani" con quel ferito. Lungo quella strada non possono fermarsi; e poi, chi è quello straniero? Magari non parla la loro lingua, è un estraneo. Quante riflessioni e quante motivazioni salgono nel cuore e nella mente mentre in questo momento! Forse non ci si ferma, perché vince sempre la preoccupazione per sé e per la propria sicurezza. Del resto, chi è preso da sé non sente che se stesso; e vive senza compassione per gli altri. Tutti sappiamo per esperienza quanto siamo pronti a commuoverci per noi, e quant'è difficile commuoversi per gli altri! Il sacerdote e il levita non si commuovono e quell'uomo mezzo morto resta solo.
Luca, a questo punto del racconto, vuole creare un forte contrasto con il terzo personaggio: il samaritano. Anche lui passa di lì per caso, come il sacerdote e il levita. È il personaggio a sorpresa, quello con cui gli ascoltatori sono chiamati a confrontarsi, a prendere come modello. E proprio qui sta la novità: non si tratta di un buon giudeo, laico e attento a quel poveretto in fin di vita. Il Rabbì di Nazareth sorprende e fa entrare in scena, come personaggio chiave, un samaritano eretico, peccatore, odiato.
Il racconto di Luca scava a fondo: dove meno te lo aspetti, dove non avresti mai scommesso, né puntato due lire, proprio lì sei invitato a focalizzare il tuo sguardo.
Il samaritano diventa modello dell'amore nelle sue declinazioni più concrete. Non si preoccupa dell'identità dello sventurato, gli si va vicino, gli presta il primo soccorso, si prende cura di lui e lo accompagna alla locanda. Mi piace l'accuratezza con cui Luca descrive le cure e l'attenzione del samaritano. C'è una bellezza profonda in quei piccoli gesti, in quella gratuità che anticipa i bisogni e le necessità del ferito. E alla domanda finale: "Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?", il dottore della legge non può più aggirare l'ostacolo e non può far altro che rispondere: "Chi ha avuto compassione di lui", benché si trattasse niente meno che di un samaritano! “Chi è il mio prossimo?” ha chiesto il dottore della legge all’inizio del racconto. "Chi è stato prossimo?" gli chiede Gesù alla fine. Ecco il ribaltamento. Non ci sono steccati nei quali riconoscere il prossimo; non è questo il problema vero. Gesù invita ad abbattere le distanze, a farsi prossimi. "Va' e anche tu fa' lo stesso", dice Gesù.
Gesù oggi insegna ad ognuno di noi cosa significa amare veramente e cosa significa “provare compassione” - cum-patire = patire con -
A noi e ai discepoli di ogni tempo lascia in dono la sua compassione perché continuiamo, come lui, a fermarci ai bordi delle strade della vita e a raccogliere coloro che hanno bisogno di salvezza. Sì, quella locanda di cui parla il Vangelo e a cui il samaritano porta quell'uomo mezzo morto siamo anche noi, è la comunità dei discepoli. Il Signore Gesù, come il buon samaritano, affida a noi, albergatori di questa locanda, quell'uomo esausto e ferito. E continua a ripeterci, ogni giorno: "Abbi cura di lui". E non solo: ci dà anche due denari del suo amore in dono. Sì, bastano davvero due denari della compassione di Gesù per aiutare, confortare e guarire chi oggi ha bisogno. E poi aggiunge ancora: "Ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno". Questo è il senso della nostra vita nel mondo, essere come quella locanda evangelica, scuola di compassione e di amore, capace di accogliere e custodire chi ha bisogno del nostro aiuto e della nostra parola. Il Signore, se noi lo vogliamo, ci strappa dal destino triste di quel sacerdote e di quel levita, uomini freddi e infelici, e ci rende partecipi del suo amore e della festa che si vive in quella locanda. Sì, la festa degli umili e dei deboli che sono raccolti dal Signore.
In questa domenica il buon samaritano torna in mezzo a noi ancora una volta; torna come maestro di carità, perché ognuno di noi impari a seguire le sue orme, apra le mani per ricevere i due denari, e apra il cuore per vivere la sua compassione. E sentiremo ancora forte l'invito di Gesù: "Va' e anche tu fa' lo stesso". Perché l'amore è l'unico che si moltiplica donandolo e condividendolo. Più lo doni e più ne sei ricco. Più lo condividi e più i tuoi occhi si fanno attenti a scovare nuovi volti da incrociare e nuovi abbracci da riempire. Provare per credere. Iniziamo da ora, da questo momento.