XII del Tempo Ordinario 19 Giugno 2016
«Ma voi, chi dite che io sia?».
Non interrogare più, ma lasciarsi interrogare. Non mettere più in questione il Signore ma lasciarsi mettere in questione da Lui. Amare le domande che fanno vivere. Gesù usa la pedagogia delle domande, sono come scintille che accendono, che mettono in moto crescite e trasformazioni. Gesù è Maestro del cuore e della vita: non impartisce lezioni, non suggerisce risposte, ma conduce con delicatezza a cercare dentro di te. Nella vita, più che le risposte, contano le domande, perché le risposte ci appagano e ci fanno stare fermi, le domande invece ci obbligano a guardare avanti e ci fanno camminare. All'inizio Gesù interroga i discepoli, quasi per un sondaggio d'opinione: «Le folle, chi dicono che io sia?».
E l'opinione della gente è bella, ma incompleta: «Dicono che sei un profeta», una creatura di fuoco e di luce, come Elia o Giovanni Battista.
Allora Gesù cambia domanda, la fa esplicita, diretta: «Ma voi, chi dite che io sia?».
Ma voi... Prima di tutto c'è un "ma", una avversativa, quasi in opposizione a ciò che dice la gente. Non accontentatevi di una fede "per sentito dire". Ma voi, voi con le barche abbandonate sulla riva del lago, voi che siete con me da tre anni, voi miei amici, che ho scelto uno a uno: chi sono io per voi? E lo chiede lì, sotto la cupola d'oro della preghiera. È il cuore pulsante della fede: chi sono io per te? Non cerca parole, Gesù, cerca persone; non definizioni ma coinvolgimenti: che cosa ti è successo, quando mi hai incontrato? La sua assomiglia alle domande che si fanno gli innamorati: quanto posto ho nella tua vita, quanto conto, chi sono per te? E l'altro risponde: tu sei la mia vita, sei la mia donna, il mio uomo, il mio amore. Gesù non ha bisogno dell'opinione dei suoi apostoli per sapere se è più bravo dei profeti di ieri, ma per accertarsi che Pietro e gli altri siano degli innamorati che hanno aperto il cuore. Gesù è vivo solo se è vivo dentro di noi. Il nostro cuore può essere la culla o la tomba di Dio. Cristo non è ciò che dico di lui, ma ciò che vivo di lui. Non domanda le mie parole, ma cerca ciò che di lui arde in me. La verità, infatti, è ciò che arde. Mani e parole che ardono, come quelle di Pietro che risponde con la sua irruenza e decisione: «Tu sei il Cristo di Dio», il Messia, il suo braccio, il suo progetto, la sua bocca, il suo cuore. Tu porti Dio fra noi: quando ti fermi e tocchi una creatura con le tue mani è Dio che accarezza.
Rinnegare: che brutta parola. Ma come si può arrivare a "rinnegare se stessi"? Cosa significa questa parola che ci fa tanta paura? È rinunciare a lasciarci trascinare da quello che non ci appartiene, ma che lasciamo crescere nel nostro cuore Si impara per esempio a non dire il vero, a nascondere quello che si pensa, a tacere le domande. Rinunciare a se stessi, vuol dire essere coerenti con la parte più profonda di noi. Eppure, nel Vangelo di oggi, è proprio questo ciò che il Maestro ci chiede: rinnegare noi stessi, come condizione per "venire dietro di lui", per seguirlo.
Per poter seguire Gesù, è Lui stesso che ci pone due condizioni: rinnegare noi stessi e prendere la nostra croce ogni giorno. Quello di prendere la nostra croce quotidiana, non mi pare sia un grosso problema: non c'è bisogno che ce la andiamo a cercare, ogni giorno ha la sua pena, ogni giorno ha la sua croce e il suo affanno quotidiano. Ci sono giorni in cui la croce è piccola: un malore, un acciacco un'azione sul lavoro non fatta alla perfezione, una parola sbagliata detta in famiglia...per cui, non ci pare nemmeno così pesante portarla. Ci sono invece altri giorni in cui la croce è veramente pesante e faticosa da portare. Qualcosa che ci colpisce all’improvviso, e che magari poi diviene un assillo non solo per un giorno o due, ma per lunghi giorni, una compagna di cammino, per cui spesso non si riesce a intravedere dove e quando terminerà questa Via Crucis. Quello che il Signore ci chiede, non è una condizione da realizzare, perché è la vita stessa che lo realizzerà per noi: la condizione che ci viene chiesta è la prima, "rinnegare noi stessi". Ed è proprio il portare ogni giorno la nostra croce che ci aiuterà in questa condizione necessaria ad essere discepoli e a seguire Gesù. Portare la croce è comprendere che non siamo noi a dettare le regole del gioco, a indicare il punto di partenza, la meta, e il tracciato di questo percorso. Queste sono le cose che ci è permesso di fare nelle nostre attività ordinarie, dove siamo noi a programmare, pensare, organizzare, perché quello che è nelle nostre intenzioni e nei nostri sogni diventi realtà. Lì sì, che dobbiamo conoscere fino in fondo noi stessi, le nostre capacità, i nostri limiti, le risorse a nostra disposizione, apprezzare e valorizzare fino in fondo ciò che siamo perché ogni nostro progetto arrivi a compimento. Perché, se non conosco e non apprezzo me stesso - la cosiddetta "autostima" -, difficilmente riuscirò a realizzare un'idea, un sogno, un progetto di vita. Ma con il seguire Gesù, non funziona così: "Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso". Per seguire Gesù, non serve autostima, conoscenza di sé, capacità di porsi obiettivi, accumulare strategie e risorse e realizzare quanto prefisso: a tutto questo, ci pensa Lui, perché è Lui che detta le regole del gioco, è Lui a indicare il punto di partenza, è lui a indicare la meta, è lui che segna il tracciato del percorso. Con la nostra croce sulle spalle, ogni giorno. Già questo ci sconvolge, perché significa spesso buttare all'aria i nostri progetti, gettare via le nostre idee e pensare in maniera opposta a come noi vorremmo.
Ma ciò che sconvolge di più è vedere che questo gioco le cui regole sono le Sue, questo cammino da Lui indicato, termina esattamente nello stesso modo in cui l'abbiamo condotto e portato sulle spalle...con la croce. Queste sono le cose che sconvolgono e che "fanno male" quando ti metti alla sequela del Maestro: tu speri che la croce che ti porti dietro ogni giorno, che quotidianamente ti carichi sulle spalle, a un certo punto divenga sempre più leggera e addirittura possa poi essere abbandonata lungo il cammino, per giungere più spediti alla meta. Invece, la meta coincide con il cammino: un cammino di croci, con la croce sulle spalle, e che termina con la croce ben piantata, ritta, al culmine di quel Calvario che è il nostro vivere quotidiano. E nessuno verrà a darti una mano per scendere da quella croce, finché tutto sia compiuto. Anzi, forse ti guarderanno, come hanno guardato "colui che hanno trafitto"; tutt'al più, puoi sperare che non ti disprezzino -come spesso avviene quando vivi con una croce quotidiana nella tua vita -.
Tutti noi, chi più chi meno, dobbiamo affrontare nel corso della nostra vita diverse tribolazioni, alcune piccole, altre più grandi. Ogni giorno portiamo nel cuore qualche pena e non c'è periodo in cui non abbiamo qualcosa per cui soffrire. Abbiamo però la possibilità di combattere per superare le difficoltà e migliorare la nostra esistenza. Il Signore nel Vangelo, quando dice "Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua" ci fornisce una chiave di lettura diversa, ci mostra come i dispiaceri della vita, la morte di una persona cara, un sopruso subito, una malattia, siano strumenti per seguire Dio nel cammino verso una vita di immensa gioia. Uno degli aspetti più rivoluzionari della dottrina di Cristo è proprio questo: far si che ciò che a noi provoca dolore, possa portare gioia e sollievo ad altri. A ben guardare anche in natura questo esiste da sempre: una mamma che partorisce e attraverso il suo dolore dona la vita al figlio; donare amore eterno alla moglie o al marito, educare i figli; mettersi al servizio di un genitore anziano o di altre persone care che hanno bisogno di me… Ogni giorno il nostro dolore, le nostre lacrime si possono trasformare nel bene. Quante persone, dopo la morte di qualcuno che riempiva la loro vita, che amavano da non riuscire ad immaginare un solo istante senza la sua presenza, si ritrovano a fare cose fino a quel momento inimmaginabili dando conforto e protezione a molti, gente che dopo un grave lutto si dedica anima e corpo a qualcuno. Ecco perciò che la sofferenza, la croce che quotidianamente siamo chiamati a portare sulle nostre spalle ci da l'opportunità e la forza per amare il nostro prossimo, per seguire Dio e di conseguenza alleviare il nostro stare male elevando la nostra anima.
Essere discepoli del Signore ci rende persone che non affrontano la vita come se fosse un'insopportabile croce, ma persone che con l'amore svelano la promessa di novità già racchiusa all'esistenza umana e cominciano a realizzarla facendo vedere già oggi la luce della resurrezione. Prendere la propria croce vuol dire volere bene sino alla fine, fino a dare tutto. La croce è un amore totale, vissuto fino in fondo. Possiede la vita, chi la dona. Oggi la speranza ci è data da chi non promette gloria, ma annuncia croce; da chi non promette successo ma sconfitta e perdita della vita per causa sua: "Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà". E la speranza ci viene dalla certezza e dalla sicurezza con cui, da subito, quando il cammino è da poco iniziato, senza mezzi termini e senza mezze parole, ci annuncia la sua - e la nostra - missione: "Il Figlio dell'uomo deve soffrire molto, venire ucciso e risorgere il terzo giorno".
Se seguire Cristo rinnegando noi stessi e prendendo la nostra croce ogni giorno significa poi risorgere, ci viene spontaneo dire: perché no?