26 Domenica del Tempo Ordinario

XXVIDomTOAnnoA“Fammi conoscere, Signore,
le tue vie,

insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua verità
e istruiscimi,

Non ricordare i peccati
della mia giovinezza:

ricordati di me
nella tua misericordia”
Salmo 24



Così prega il Salmista, a nome di ogni uomo che riconosce la propria fragilità morale, si rivolge a Dio e implora da Lui la luce della sapienza e la misericordia, che perdona. “Non ricordare i peccati della mia giovinezza”, precisa il Salmo e due giovani sono, appunto, i protagonisti della parabola, che il brano del Vangelo offre, oggi, alla nostra riflessione.

Il ritratto dei due giovani è un ritratto realistico, che mette in luce alcuni tratti caratteristici di un’età splendida, fatta di ideali, di sogni, di progetti, di slanci e di generosità; ma anche di insoddisfazione, di fatica e di delusioni; un’età, segnata dal bisogno di libertà e di autonomia.
C’è un uomo che ha due figli, seppure figli dell’unico padre, agiscono in maniera molto diversa, contrapposta. Il primo è beneducato, ha stile, chiama “signore” suo padre, come era nelle buone maniere dei ragazzi ebrei. La prima impressione è molto buona: è un figlio pronto e disponibile. Il secondo, invece, sembra maleducato, menefreghista. Risponde: “Non ne ho voglia, non mi interessa”, ma poi cambia idea, ci ripensa e ci va.
Chi sono i destinatari di questa parabola? 

1) Gesù si riferisce innanzitutto a ciò che è successo a Giovanni Battista.
I capi religiosi, all’inizio, lo hanno riconosciuto come un profeta, ma poi non si sono lasciati toccare il cuore. Gli avevano detto di sì perché avevano visto in lui un uomo che poteva contrapporsi al potere romano, un uomo forte, ma quando hanno visto che non rientrava nei loro schemi gli hanno voltato le spalle. Non si sono lasciati penetrare dal suo messaggio: era troppo esigente! Lo appoggiavano solo perché era un personaggio che aveva ascendente sulle masse, prendevano l’immagine del Battista, ma non il suo messaggio e la sua verità.
I pubblicani e i pagani, invece, lo hanno rifiutato all’inizio, gli hanno detto no, ma poi si sono ricreduti, si sono messi in discussione, hanno lasciato che le sue parole riscaldassero il loro cuore. Non si sono accontentati di ascoltare, ma hanno chiesto: "Cosa dobbiamo fare?" Lc 3, 10-14; e hanno messo in atto quanto Giovanni aveva detto loro.
2) Poi Gesù si riferisce a se stesso e alla situazione che ha davanti. I sacerdoti, gli scribi e gli anziani del popolo, gente ufficialmente religiosa, fedele, gli è contro e non lo accoglie: si sente garantita da quello che ha e non ha bisogno d’altro. Ha già le sue leggi, i suoi riti e le sue pratiche: tutto sembra un “sì”, ma è solo esterno perché dentro il loro cuore è pieno di altre cose. I farisei e gli scribi non facevano nulla di male: rispettavano tutte le leggi e le norme, ma erano morti dentro.
Vivere in prima persona fa paura perché vuol dire esporsi, cambiare, sperimentare, credere perché lo si intuisce, provare e sbagliare, essere responsabili e non avere risposte già pronte; vuol dire trovare le proprie risposte, lottare, piangere, emozionarsi, stupirsi, sbagliare, rialzarsi, riprovare e non arrendersi.
"I pubblicani e le prostitute vi precederanno nel Regno di Dio" dice Gesù ai farisei che lo ascoltano nel tempio. Senza dubbio, queste parole suonano per loro come una bruciante sferzata. Loro, che si consideravano, ed erano ritenuti "puri", sarebbero stati preceduti dai pubblici peccatori e dalle prostitute. Ma perché i peccatori erano migliori di loro? Non perché fossero prostitute o peccatori, ma ci provavano, magari sbagliando, andando a fondo, ma almeno ci provavano.
Qual è il rimprovero che Gesù fa ai farisei?
Anzitutto la distanza tra il "dire" e il "fare". E lo esemplifica con la parabola dei due figli. Il primo si dichiara pronto ad andare a lavorare nella vigna, ma non lo fa', il secondo invece, dopo aver detto no, si reca alla vigna. Gesù mette a nudo la contrapposizione tra le parole e la vita. Le parole da sole non salvano, occorre metterle in pratica. Gesù aveva detto: "Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli" Mt 7, 21.
L’accusa di Gesù ai Farisei è la distanza tra il dire e il fare. È rivolta a chi bada più all'apparire che all'essere, più alle parole che al fare, più all'esteriorità che al cuore. E se ci esaminiamo un po’ dentro, vediamo quanto a volte anche noi assomigliamo al primo figlio pronto più a dire sì con le labbra che a fare concretamente la volontà di Dio.
Il secondo figlio, dice il Vangelo, si pentì, cioè si ricredette, ritornò sulla sua scelta. Magari i pubblicani e i peccatori non seguivano il Battista, ma ciò che diceva li faceva pensare. I giusti invece neppure erano scalfiti dalle sue parole.
Credere di essere nel giusto e andare avanti per la propria strada, non farsi domande, non essere disposti a cambiare o a rivedere le proprie idee: questo è drammatico!
Gesù, invece, ama le persone che ci provano. Gente che si butta ai suoi piedi, che piange e si dispera; gente che si mostra per quello che è, che non si vergogna e non nasconde i propri problemi, i disagi, le ferite; gente che si accorge di aver sbagliato, che cambia vita. Gente dal cuore grande, che fa follie, perché solo chi ama, solo chi è innamorato, può far follie: come quella donna che versò il profumo sui piedi di Gesù o quella che pianse e che con i suoi capelli glieli asciugò. Sono i gesti dell’amore: folli per chi ha il cuore duro e rigido; di misericordia e di vita per chi vive. Il vero rapporto con Dio ti rende libero: il “sì” fuori è anche un “sì” dentro. Quello falso, invece, è un “sì” fuori, è un “no” dentro.
3) E infine Gesù si riferisce a tutta quella gente che dice e che non fa. Per Gesù è importante agire, diventare ciò che il padrone e la vita ci chiama. Questa è una delle accuse di Gesù ai farisei: “Dicono, ma non fanno” Mt 23,3. Infatti, saremo valutati su ciò che avremo realizzato e non sulle belle intenzioni o sui nostri bei propositi.

Dio affida a ciascuno di noi un compito: c’è qualcosa che dobbiamo realizzare. La prima reazione forse è il rifiuto e la paura: “No, io non ci vado”. Disturba andare perché è qualcosa che è più grande di noi. Sembra non siano sufficienti le nostre forze: “Non è nei miei piani”. “No, ho paura”. “No, non voglio mettermi in discussione”. Ma ciò che conta è andare, agire, dirgli “Sì”, anche se questo sembra pazzesco, folle. Vai, fidati. Ad un certo punto bisogna andare, bisogna fidarsi, bisogna buttarsi.
Ad un certo punto bisogna togliere l’ancora e andare, altrimenti si rimane per sempre nel porto. Quante gente ha intuito qualcosa di grande, ma non è mai uscita dal porto: esistenze incompiute, mai fiorite, mai sbocciate, con dentro qualcosa di grande, ma rimasto lì. Che peccato! Quanta gente inizia qualcosa di grande, dice “sì” all’inizio, ma poi questo “sì” si blocca, si ferma, non viene approfondito, non mette radici, non trova consistenza. Nel tempo diventa “no” e si spegne tutto.
Lavorare nella vigna è quello che io posso fare per questo mondo. Io ho un tesoro che mi è stato affidato. Ho delle doti, delle capacità, un carattere, una certa sensibilità, delle possibilità, qualcosa che mi brucia dentro. Tutto è in me come potenzialità. Agire vuol dire riconoscere tutto questo, capire ciò che possiamo essere e diventarlo. Agire significa dire sì a se stessi.

Gesù è stato un uomo del sì dentro e fuori: quello che è dentro sia anche fuori. Gesù è l’uomo vero: sì quando è sì e no quando è no.
Vorrei, allora, che la mia vita fosse “sì, sì”; “no, no” Mt 5,37. Vorrei essere, cioè, un uomo coerente, limpido, trasparente, solare: ciò che ho dentro sia ciò che ho fuori. Vivi ciò che dici e dici ciò che vivi, come dentro, così fuori, come nel cuore, così nella bocca.

Aiutami, Signore!
Aiutaci, Signore!

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