Preghiera e Liturgia

Corpus Domini 2022

Adoro te devote2«Adoro te devote, latens Deitas»
«Devoto io t'adoro, nascosta Deità»

Celebriamo la solennità del Corpus Domini, il Santissimo Corpo e Sangue di Gesù. È il mistero della sua presenza per sempre in mezzo a noi e della memoria Eucaristica. Come un santuario collocato sopra una ripida roccia, il Mistero Eucaristico attrae il nostro sguardo, ci seduce con la sua bellezza e, anche se rimane inaccessibile per noi, lo sentiamo come fonte e culmine della nostra vita e della nostra fede. La festa di oggi è un prezioso momento per riaffermare con le parole e con le opere la nostra fede in Gesù unico Salvatore, perché ha offerto la sua vita sulla croce e ci ha lasciato il segno più grande della sua presenza in mezzo a noi: l’Eucaristia, il Pane della Vita.
 
Parlare di un inno liturgico che ha avuto un successo popolare come «Adoro te devote» è facile e difficile allo stesso tempo. Facile in quanto si pensa che esso sia parte della tradizione cristiana, ma difficile in quanto proprio questa sua popolarità quasi lo sottrae ormai ai rigori dell’approccio storico, come se esso fosse ormai consegnato al popolo e alla sua fede nella SS. Eucaristia. Questo, come altri venerandi inni liturgici latini del passato, appartengono ai fedeli, che lo hanno cantato per secoli, lo hanno fatto proprio e quasi ricreato, non meno che all’autore che lo ha composto, spesso, del resto, rimasto anonimo. La tradizione attribuisce il canto a San Tommaso d’Aquino, ma questo non è certo. La tradizione lo attribuisce da sempre al grande santo, anche se manca l’evidenza storica di questo fatto.

Qualche scrittore Celso lo dice chiaramente: «L’autore dell’inno eucaristico “Adoro te devote” è stato un grande teologo e mistico. L’inno è un prodigio di viva fede, di ferma speranza, di amore appassionato. La tradizione è stata fortemente favorevole all’attribuzione dell’inno a San Tommaso d’Aquino. Il suo contenuto teologico-spirituale segue da vicino la dottrina sull’Eucaristia esposta da san Tommaso, soprattutto nella terza parte della Summa Teologica. L’inno viene inserito nel Messale Romano di Pio V il 14 luglio 1570 come preghiera di ringraziamento dopo la Messa «In gratiarum actione post missam». Il canto è stato comunque composto negli anni in cui è vissuto questo gigante del pensiero cattolico (XIII secolo) e ne riflette in buona parte la teologia eucaristica. Ricordiamo che in questi secoli, fino al Concilio di Trento e oltre, la dottrina eucaristica passa attraverso varie fasi lunghe e tortuose, toccando temi teologici delicati e complessi.
 
L’inno è composto di sette strofe di quattro versi ognuna.
Viene osservato che la sua struttura metrica lo rende molto originale per il periodo in cui è stato composto. La melodia di V modo che appartiene al periodo post-classico della stagione del canto gregoriano è semplice e spontanea, racchiusa tutta nell’ambito di un’ottava e alla portata di qualunque gruppo di cantori, anche non molto esperti. Sembrerebbe che questa melodia sia stata composta successivamente rispetto al testo, dopo il XVII secolo e che all’inizio venisse recitato semplicemente come una preghiera.
 
Cosa ci dice dell’Eucaristia questo inno?
Nella materia dell’Ostia Dio si nasconde, si cela, così che i nostri sensi «visus, tactus, gustus in te fallitur! - sed auditu solo tuto creditur» non arrivano a percepirlo. È interessante notare quello che alcuni tomisti giudicano come una sorta di “errore” e che pregiudica per loro l’attribuzione dell’inno a Tommaso. Se tutti i sensi sono abilitati alla concezione del reale senza errore, perché l’udito può sottrarsi all’evidenza del pane e del vino e giungere fino alla conoscenza di ciò che sta oltre l’apparenza? Quell’auditus, cioè, che fa credere con sicurezza, non fa parte della compagine dei sensi, secondo il filosofo Aristotele, ma bisogna trovare un’altra fonte di significato dentro la tradizione cristiana o di San Tommaso d’Aquino. Dio sembra giocare, attraverso i versi di questo poeta, con la teologia e la filosofia. Continua anche qui, in un certo senso, a nascondersi. Questo nascondersi di Dio, questo gioco d’amore con l’amata, questo donarsi sottraendosi, riecheggia la tradizione biblica, anche dell’Antico Testamento. Basta ricordare per esempio quanto detto dal profeta Isaia: «Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio di Israele, salvatore» Is 45,15.  Lo stesso Isaia, poco prima, afferma: «Io ho fiducia nel Signore, che ha nascosto il volto alla casa di Giacobbe, e spero in lui» Is 8,17. Nel Salmo 89 viene detto: «Fino a quando, Signore, continuerai a tenerti nascosto, arderà come fuoco la tua ira?». Dio abita in una «nube inaccessibile. Nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo» 1Tm 6,16. Così anche nel Cantico dei Cantici, luogo simbolo di queste schermaglie amorose, assistiamo ai tormenti della Sposa (che prefigura la Chiesa) in affannosa ricerca dello Sposo (Cristo). Questo tema del nascondersi percorre in diversi modi l’inno. Non solo nel famoso primo verso, ma anche negli altri, in cui la tensione si giocherà tra il nascondersi di Dio e lo smarrirsi dell’uomo. E non è forse questa la storia della nostra vita e della vita della Chiesa? Questo rincorrere (rincorrersi?) della Sposa verso il suo Sposo, della nostra anima verso un senso che ci strappi dal tedioso e chiuso presente?
 
«Latens Deitas» in alcune traduzioni viene reso come «Dio nascosto» mentre in altre, forse più opportunamente, viene reso come «deità nascosta». Questa seconda mi sembra più suggestiva: vi si afferma tutto l’indicibile mistero che è l’Eucaristia, che noi adoriamo non vedendo «Deus-Dio» ma intravedendo «deitas-deità». L’uomo non può che adeguarsi al gioco di Dio, tentando di carpirne i giochi d’amore.
Padre Cantalamessa, autore di un libro a commento proprio di questo inno, offre una lettura suggestiva proprio dell’inizio dello scritto: «In ogni strofa dell’Adoro Te devote c’è un’affermazione teologica e una invocazione che è la risposta orante della anima al mistero. Nella prima strofa la verità evocata riguarda il modo di presenza di Cristo nelle specie eucaristiche. L’espressione latina «vere latitas» è densa di significato; vuol dire: sei nascosto, ma ci sei veramente, dove l’accento è sul «vere», sulla realtà della presenza e vuol dire anche: ci sei veramente, ma nascosto, dove l’accento è su «latitas», sul carattere sacramentale di questa presenza. Per comprendere questo modo di parlare bisogna tener conto della grande svolta che si verifica circa l’Eucaristia nel passaggio dalla teologia simbolica dei Padri e quella delle scuole di filosofia Mentre prima si diceva che Cristo nell’Eucaristia è presente sacramentalmente, o, secondo gli orientali, mistericamente, ora si dice che è presente sostanzialmente, o secondo la sostanza. Il nostro inno si colloca chiaramente al di qua di questa svolta, anche se evita il ricorso ai nuovi termini, poco appropriati in un testo poetico. Nel verso «quae sub his figuris vere latitas», il termine figura indica le specie del pane e del vino in quanto nascondono quello che contengono e contengono quello che nascondono Padre Cantalamessa 2004. Ma questo nascondersi è anche un rivelarsi, in questo gioco di luci ed ombre che troviamo anche ben rappresentato nel Cantico dei Cantici, metafora dell’amore nuziale fra Dio e l’umanità. Il Santo Padre Benedetto XVI così scriveva: «E che dovremmo dire noi, Sacerdoti della nuova Alleanza, che ogni giorno siamo testimoni e ministri dell’epifania di Gesù Cristo nella santa Eucaristia? Tutti i misteri del Signore la Chiesa li celebra in questo santissimo e umilissimo Sacramento, nel quale egli al tempo stesso rivela e nasconde la sua gloria. «Adoro te devote, latens Deitas» adorando, preghiamo così con san Tommaso d’Aquino».
L’uomo è chiamato a farsi presente al sacrificio di Cristo che chiede di ripetere quel gesto in sua memoria. Nei secoli noi ci riuniamo per celebrare questo «memoriale». E infatti nell’inno questo è puntualmente riportato: «O memoriale della morte del Signore». E questo memoriale per la nostra fede non è una semplice «memoria». Memoria è qualcosa che noi ricordiamo, accaduta nel passato. Il memoriale è riportare all’oggi quello che è accaduto nel passato, riviverlo. È riconoscere Gesù Signore oggi, in questo momento. Quindi noi potremmo vedere questi come i due termini estremi del viaggio spirituale dell’uomo, tra una «deità» che si nasconde e un Gesù Signore che si rivela, sulle ali di questo «memoriale». In questi due lati dell’oceano dello Spirito c’è la navigazione delle anime tra il non visto e il desiderato, tra cielo e terra, tra sensi e cuore. Questo Dio che ci parla nel silenzio ci sfida. Non sottovalutiamo il sapore di questa sfida, non dimentichiamo cosa significa scontrarsi con i suoi alti silenzi: «Dio, rivelandosi, non si è soltanto detto, ma si è anche più taciuto. Rivelandosi Dio si vela. Comunicandosi si nasconde. Parlando si tace. Maestro del desiderio, Dio è colui che dando a te se stesso, al tempo stesso si nasconde al tuo sguardo. Dio è colui che rapendoti il cuore, chiamandoti a consegnarti a Lui, sembra a te sempre nuovo e lontano» Bruno Forte, Confessio Theologi, 2002. E questo «memoriale» della morte del Signore Gesù lo abbiamo sotto le sembianze di quel pane che è l’ostia, quel pane che quindi per noi è «pane vivo» attraverso cui anche noi partecipiamo a questo mistero di salvezza che è la vita di Cristo offerta in sacrificio per noi.
 
Il Medioevo è periodo di uso di simboli e allegorie. Una di queste è usata dall’autore dell’inno, quando chiama Gesù Eucaristia «pellicano amoroso».
Secondo la leggenda medioevale i piccoli del pellicano, dopo essere un poco cresciuti, colpiscono il volto dei genitori. Questi ultimi, presi dalla rabbia li battono fino a farli morire. Ma poi, mossi dalla compassione, li piangono per tre giorni. Il terzo giorno la madre dei piccoli si ferisce il fianco e ne fa uscire il suo sangue che si versa su di loro e li resuscita. Quindi questa immagine si presta ad una doppia simbologia: è Dio Padre che dona il Figlio e lo lascia morire in croce e lo fa rivivere dopo tre giorni; è Cristo stesso che effonde il suo sangue per la salvezza di tutti. È quel sangue che ci purifica, come detto nella sesta strofa: «Me immundum munda Tuo sanguine!».
Uno dei passi più interessanti dell’inno, mi sembra quello che si trova alla terza strofa. Sembra quasi un velato rimprovero: «quando eri sulla croce almeno potevamo vedere la tua umanità, anche se la tua divinità rimaneva nascosta, ora non intravediamo neanche quella!».

Cosa ci dice l’inno sull’uomo?
La visione che l’inno ha è sorprendentemente moderna. In esso si trova l’appello a tutte le facoltà dell’essere umano, all’essere umano integrale. L’uomo non è solo mente, ma non è neanche solo cuore. L’uomo è «cuore, vista, tatto, gusto, udito, mente…» L’uomo è tutto l’uomo, che è redento da Cristo. E quindi è l’uomo completo che viene salvato in tutta la sua integrità e fragilità. E questa fragilità è magistralmente simboleggiata proprio dai nostri sensi, porte verso la vita ma anche accessi per innumerevoli tentazioni. Il contrasto più immediato che si può rilevare è quello tra mente e cuore. L’inno dice: «Il mio cuore ti è sottomesso perché contemplandoti tutto viene meno». Cosa ci dice questo? Più tentiamo di immergerci in questo grande mistero, più tentiamo di adorare devotamente, più l’oggetto della nostra contemplazione sembra allontanarsi. Ma in realtà non si allontana, ma si avvicina, rendendo i nostri sensi inadeguati alla sua intimità. Ecco perché i sensi si perdono in Lui.
 
L’autore dell’inno, e ciascuno di noi, non può che invocare un aiuto: «Fa che sempre di più io creda in te, abbia speranza in te, ami te…concedi alla mia mente di vivere di te…».  Ma su cosa si fonda la nostra fiducia? Si fonda su quanto abbiamo ascoltato, su quanto ci è stato testimoniato e annunciato. «Tutti i sensi falliscono ma solo l’udito fa credere con certezza». Ricordiamo che uno dei significati della parola latina «adorare» è proprio quello di «parlare a qualcuno». Una fede fondata su un mistero così profondo non può che renderci umili e disponibili, aperti perché «sorpresi dalla verità». Una fede così non può solo essere «letta». Essa non segue qualcosa, ma Qualcuno, che crediamo misteriosamente presente sotto le sembianze del pane e del vino.
 
Nell’udienza del 17 novembre 2010, Benedetto XVI diceva: «La fedeltà all’incontro con il Cristo Eucaristico nella Santa Messa domenicale è essenziale per il cammino di fede, ma cerchiamo anche di andare spesso a visitare il Signore presente nel Tabernacolo! Guardando in adorazione l’Ostia consacrata, noi incontriamo il dono dell’amore di Dio, incontriamo la Passione e la Croce di Gesù, come pure la sua Risurrezione. Proprio attraverso il nostro guardare in adorazione, il Signore ci attira verso di sé, dentro il suo mistero, per trasformarci come trasforma il pane e il vino. I Santi hanno sempre trovato forza, consolazione e gioia nell’incontro eucaristico. Con le parole dell’«Adoro Te devote» ripetiamo davanti al Signore, presente nel SS. Sacramento: «Fammi credere sempre più in Te, che in Te io abbia speranza, che io Ti ami!». Cantando l’«Adoro Te devote» ci innalziamo sulle ali della più alta devozione eucaristica.

Sia lodato Gesù Cristo.

Adóro te devóte.
Adóro te devóte, latens Déitas,
quae sub his figúris vere látitas,
tibi se cor meum totum súbicit,
quia te contémplans totum déficit.

Visus, tactus, gustus in te fállitur,
sed audítu solo tuto créditur.
Credo quidquid dixit Dei Filius:
nil hoc verbo veritátis vérius.

In cruce latébat sola Déitas,

at hic latet simul et humánitas;
ambo tamen credens atque cónfitens,
peto quod petívit latro paénitens.

Plagas sicut Thomas non intúeor;
Deum tamen meum te confíteor;
Fac me tibi semper magis crédere,
in te spem habére, te dilígere.

O memoriále mortis Dómini,

Panis vivus vitam praestans hómini,
praesta meae menti de te vivere,

et te illi semper dulce sápere.

Pie Pellicánae, Jesu Dómine,

me immúndum munda tuo sánguine,
cujus una stilla salvum fácere
totum mundum quit ab omni scélere.

Jesu quem velátum nunc auspicio,
oro fiat illud quod tam sítio:

ut, te reveláta cernens fácie,
visu sim beatus tuae glóriae.

Amen.

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