Preghiera e Liturgia

Et ne nos inducas in tentationem

7Enonciindurreintentazione«Et ne nos inducas in tentationem» Marzo 2019.
«E non ci indurre in tentazione...» Mt 6,13.


È domenica sera di un anno fa e sono di ritorno dalla S. Messa festiva. Racconto quanto ho vissuto durante la celebrazione della Santa Messa di questa sera. Scrivo da Milano, vi risiedo da qualche anno dopo aver lasciato la regione nella quale sono nato e cresciuto fino all’età di 23 anni. Milano, si sa, è la locomotiva d’Italia e funge spesso da cassa di risonanza di tutte le novità che poi, da qui, si riverberano nel resto del paese. Nulla di particolarmente eccezionale se ciò riguarda abitudini e stili di vita del mondo, mentre molto più interessante diventa la cosa se a essere anticipati e amplificati sono i cambiamenti di cui si discuterà nei prossimi mesi in ambito ecclesiale. 
Ebbene, proprio questa sera, il sacerdote della mia Parrocchia, al momento della preghiera del Padre nostro, ci ha annunciato l’imminente cambiamento invitandoci, a seguirlo già da questa sera stessa nell’utilizzo della nuova espressione «E non abbandonarci alla tentazione» in luogo della vecchia «E non indurci in tentazione». Da cattolico fedele al «depositum fidei» ho iniziato a mugugnare tra me e me alle parole del sacerdote, ma fatto sta che questi ha pregato il Padre Nostro usando la nuova traduzione. Dal canto mio sono rimasto fedele al testo insegnatomi fin da quando ero bambino e ho alzato il tono della voce al momento di chiedere a Nostro Signore di non indurmi in tentazione, con la speranza che i miei vicini di banco sentissero la dissonanza rispetto alle parole del celebrante.

Abbiamo detto finora il Padre Nostro nel modo sbagliato?
«Non ci indurre in tentazione non è una buona traduzione» dice Papa Francesco. Ma davvero allora abbiamo pregato il Padre Nostro nella maniera sbagliata? L'espressione «Non ci indurre in tentazione» ci mette a disagio, perché nel nostro sentire comune giustamente pensiamo a Dio come colui che soccorre, sostiene nella tentazione, come un padre che solleva delle cadute, non come qualcuno che le provoca. La traduzione della CEI ha già corretto il Padre Nostro nel 2008 con l'espressione «Non abbandonarci alla tentazione» però, a dire la verità, anche questa traduzione solleva dei problemi. In tutta onestà, secondo me, espressioni come «Non ci abbandonare o non ci lasciare nella tentazione» sono traduzioni che suonano molto bene, ma che fanno altrettanta fatica ad afferrare il senso originale. Qual è allora la traduzione migliore? Qui bisogna dire due cose: non esiste una traduzione perfetta, perché ogni traduzione è anche un po' inevitabilmente un'interpretazione; non è tanto importante la traduzione, è molto più importante capire che cosa abbiamo in mente quando diciamo certe parole, cioè l'intenzione che mettiamo nelle parole. E questo vale soprattutto per le parole di una preghiera. La traduzione più vicina al senso originale non dovrebbe andare lontano da questa: «Non introdurci nella prova» ed ecco il perché. L'espressione originale greca è: «kài mé eis enènkes hemàs eis peirasmon» che San Girolamo tradusse nella vulgata con la famosa espressione: «Et ne nos inducas in tentationem», dalla quale deriva a sua volta il nostro tradizionale: «Non ci indurre in tentazione»che, come si vede, più che una traduzione è una trasposizione parola per parola, che ha lo stesso suono, praticamente un latinismo. Letteralmente l'espressione greca «eisenènkes» tradotta da San Girolamo con «inducas» vuol dire condurre dentro, far entrare. Quindi più che indurre, che è una ripresa del suono della parola latina, dovremmo dire «introdurre». Ma non dobbiamo fermarci qui.
I guai cominciano quando trascuriamo di cercare una traduzione accurata anche per la seconda espressione «tentazione». La parola tentazione, infatti, si presta a molti equivoci. Il greco «peirasmon» è tradotto sempre da San Girolamo con «tentatio», che poi in italiano diventa «tentazione». Gran parte del problema dipende dal senso attribuito a questo. Il linguaggio comune associa la parola «tentazione» a una forma di seduzione, all’istigazione a compiere qualcosa di illecito, approfittando dell’inclinazione umana a fare il male, a peccare. In questo senso nella nostra cultura, si tratta di un compito attribuito al diavolo che sfrutta le nostre debolezze per farci cadere. Presa in questo senso l'espressione «indurre in tentazione» suona totalmente fuori posto. Dio non può certo volere il nostro peccato. Perciò non è pensabile che ci abbandoni al male in qualunque forma si presenti. Da qui nascono tutte le perplessità. Allora il termine «peirasmon – tentatio» più che con «tentazione» dovremmo tradurlo con «prova» nel senso proprio di test, di verifica, di collaudo, di esame. «Prova» evoca un significato diverso da tentazione, perché se è vero che Satana è il tentatore per eccellenza, è altrettanto vero che Dio non risparmia all'uomo il momento della prova. Dio mette alla prova la fede di Abramo, Dio mette alla prova la pazienza di Giobbe… ogni personaggio gradito a Dio nella Bibbia passa attraverso il momento della verifica così come ogni Santo, così come nella vita di ogni cristiano, così come nella vita di ogni uomo, Gesù stesso è condotto dallo spirito nel deserto per essere messo alla prova. Essere sottoposti alla prova è parte della condizione umana. La vita stessa è in un certo senso come un test, un esame che non possiamo evitare. «Gli esami non finiscono mai» dice il titolo di una commedia scritta dal grande Eduardo De Filippo, che non a caso è diventata anche un detto popolare. Anche chi ha problemi con la Fede lo può capire con facilità. La vita mette alla prova tutto: gli amori, le amicizie, i legami, le nostre convinzioni, ciò in cui crediamo, il valore delle nostre azioni e dei nostri propositi. Ditelo, per esempio, a un soldato al fronte, o un uomo che affronta una dura malattia, o a chi vive una perdita, un lutto, un momento difficile della vita. Dio non vuole il nostro male, ma non risparmia quasi a nessuno momenti duri. A nessuno viene risparmiato il peso della vita, il peso della Croce, una croce più o meno visibile e posta prima o poi sulle spalle di tutti e nel corso della vita di ciascuno ci sono prove più semplici e prove più difficili. A volte è quasi insopportabile il fatto che Gesù abbia insegnato a pregare con le parole «Non farci entrare nella prova». Allora diventa più comprensibile. Quello che viene chiesto a Dio è di non essere provati dalla croce, dal dolore, perché cercare di evitare le prove nella vita è naturale come chiedere il nutrimento per la vita. Il credente chiede a Dio di poter evitare le prove più dure, dopo aver appena chiesto anche che «sia fatta la Sua volontà». È una preghiera perfettamente cristiana, perché è quello che Gesù stesso ha chiesto al Padre durante tutta la sua esistenza fino al momento più drammatico della sua vicenda. Ed è esattamente questo quello che Gesù insegna a chiedere: che ci sia risparmiato il momento della prova, soprattutto di quella più dura, più difficile, quella che temiamo di più e che abbiamo paura di non essere in grado di sopportare, la prova del dolore, della privazione... Qualcosa che sappiamo ha chiesto anche Lui per sé stesso.
L'unico passo in cui compare nel Vangelo di Matteo la parola «tentazione» è il passo del capitolo 26, il momento dell'agonia di Gesù nell'orto del Getsemani, è il momento più duro per Gesù. All'inizio della sua prova definitiva, quella della sua passione, Gesù prega di poterla evitare, ma sottolinea: «Non come vorrei io, ma come vuoi tu». Poi torna dai discepoli insonnoliti e li esorta a pregare… proprio per non cadere nel momento della prova. Quando, di nuovo solo, ricomincia a pregare, si affida al Padre dicendo «Sia fatta la tua volontà». Ed è esattamente quello il momento in cui i suoi nemici vengono per arrestarlo. Comincia la sua prova, la sua ultima più grande tentazione. Non si capisce il Padre Nostro se non si capisce che non è solo la preghiera che Gesù ha insegnato ai suoi discepoli, ma anche quella con cui Lui stesso si è rivolto al Padre per tutta la sua vita. Il Padre Nostro è il Vangelo stesso che diventa preghiera e viene messo sulle labbra del credente. «Non introdurci nella prova» come ha deciso di tradurre la Conferenza Episcopale Francese, quella che il Papa indica ad esempio, cioè la traduzione «Non lasciarci entrare nella prova» evoca meglio il senso della preghiera di Gesù. Io personalmente credo che continuerò a pregare nel cuore con «Non ci indurre in tentazione» non solo per abitudine, ma perché mi sento in grado di attribuire all'espressione, anche se imperfetta, il suo giusto senso. Intanto vi faccio una domanda: «Voi che cosa farete, come direte il Padre Nostro d'ora in poi? ».

È stato trovato un frammento datato intorno agli ultimi anni del primo secolo dopo Cristo, con una firma, o almeno le iniziali di Gesù, il Cristo con la nuova versione? Purtroppo no! L’esistenza di questo frammento o frammenti non è ancora stata resa nota, ma deve esistere; se no con quale impertinenza si oserebbe manomettere un testo vecchio di duemila anni, sempre considerato autentico e pregato in quel modo da infinite generazioni di cristiani? Verifichiamo alcuni dati. Sembra che in Germania, contro la nuova traduzione, sostenuta dal Papa, abbiano obiettato pure gli atei e che i protestanti abbiano annunciato che non cambieranno nulla. Il rispetto per il Testo Sacro è fondamentale, e si dimostra nella fedeltà delle traduzioni con i testi originali. Ma la tendenza oggi è quella di far prevalere il «politicamente corretto», la traduzione più morbida e mielosa. Sradicando completamente il vero significato di ciò che la Parola ci vuole dire. Infatti molti si sono chiesti: Come può Dio «indurre» in tentazione? Ci sono tanti passi biblici che dimostrano come Dio induce alla tentazione e alla prova. Non ci si può scandalizzare, pensando che Dio abbia solo la «mielosa misericordia», trascurando la Croce, la prova e la tentazione”.
 
Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami Isacco, va' nel terrotiorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» Gn 22,1-2.

Il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se lo amate con tutto il cuore e con tutta l’anima
Dt 13,4.

Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione
Sir 2,1.

E subito lo Spirito lo sospinse nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana.
Mc 1,12-13.

Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane».
Mt 4,3.

Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione
Mt 26,41.

«Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte
2Cor 12,7-10.

Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare”
1Pt 5,8.

Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove”
Gc 1,2.

Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere.
1Cor 10,12.

Ho fatto un sogno...
La versione riveduta e ricorretta del «Padre Nostro» fu dunque pubblicata. Ma avvenne un fenomeno strano. Per quanto le Conferenze Episcopali Nazionali si impegnassero nel proporre il nuovo testo, la gente, continuava a pregare come una volta, con la vecchia formula. Durante le Sante Messe la cosa assumeva contorni singolari. Succedeva infatti che il celebrante recitasse la nuova formula, salvo poi tornare alla vecchia quando si rendeva conto che i fedeli pregavano seguendo il testo tradizionale. «Tutto ciò è inammissibile!», tuonò un teologo. Ma non ci fu nulla da fare. Nonostante gli sforzi fatti per pregare con il nuovo testo, la gente continuava a dire: «Padre nostro, che sei nei cieli… e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Amen». «Incredibile!», sibilò il teologo. «Dicono ancora “e non ci indurre in tentazione”».
Un giorno il teologo si sentì male e finì all’ospedale. E si mise a pregare. Incominciò dunque a dire: «Padre nostro che sei nei cieli…». Tuttavia non riuscì ad andare avanti. Per quanto si sforzasse di applicare la nuova formula, dal cuore gli salivano le parole di un tempo, della vecchia preghiera, imparata quando era bambino, non riveduta e non ricorretta. «Che strano…» pensò. E fu quello il suo ultimo pensiero prima di spirare. Quando, un istante dopo, si trovò davanti a Dio per il giudizio, il teologo restò alquanto stupito. Non se lo sarebbe mai immaginato. Dio era proprio un vecchio, e aveva proprio la barba, come nell’iconografia che lui, il teologo, aveva sempre giudicato ingenua. Ed era proprio assiso in trono, alla sua destra c’era il Figlio! E quello era proprio il momento del giudizio! «Incredibile!», pensò il teologo. «Chi l’avrebbe mai detto?». Dopo di che Dio gli chiese di recitare il «Padre Nostro», e fu a quel punto che il teologo si trovò nel dubbio. Che fare? Utilizzare la nuova formula, oppure attenersi alla vecchia? Dio sembrò leggergli nel pensiero. Gli disse infatti: «Figliolo, non stare tanto a pensarci. Su! Latino o volgare, fa lo stesso». Latino o volgare! Dio pensava che il rovello interiore del teologo fosse quello, e invece… E fu così che al teologo salì dal cuore la preghiera di una volta, vecchia formula. «Ma guarda», disse Dio lisciandosi la barba e voltandosi dalla parte del Figlio con un’espressione di finta sorpresa. «M’era sembrato di capire che questo testo fosse superato». Il Figlio non commentò e sorrise. «Pietà di me» disse allora il teologo. E pianse. Arrivarono due angeli e lo scortarono verso il luogo stabilito per lui. Egli non credette ai suoi occhi e alle sue orecchie. Era un giardino, bellissimo. E lì, immersi in una melodia di una dolcezza indescrivibile, decine, centinaia, migliaia di bambini cantavano incessantemente e a voce spiegata il «Pater Noster».
Vecchia formula e in latino!

Sia lodato Gesù Cristo.

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