4 Domenica di Pasqua 2021
«La vostra tristezza si cambierà in gioia» Gv 16,20.
«Sovrabbondo di gaudio in mezzo alle tribolazioni» San Paolo.
Le misteriose parole del testo evangelico di questa Domenica furono pronunciate da Gesù nell’ultima notte della sua vita terrena e proprio sul punto di abbandonare il Cenacolo, per recarsi nell’orto degli Ulivi ad incominciare la sua Passione. Si comprende quindi, per quanto parlino di gioia, quel tono di mestizia che vi è diffuso. Di lì a poco Gesù avrebbe detto di essere preso da una tristezza addirittura mortale, quella che avrebbe turbato fino al sudore di sangue l’equilibrio della sua natura fisica e come attanagliato lo spirito nella morsa del dolore. Forse erano destinate ad essere per gli Apostoli...
cui tali parole erano rivolte, un altro annuncio della sua morte e del suo ritorno alla vita. O forse, come pensa Sant’Agostino, erano la profezia non di un avvenimento imminente, ma di un avvenimento molto lontano nel tempo, cioè la sua ultima venuta alla fine del mondo.
Qualunque sia però il loro significato nascosto, ne hanno un altro evidente: l’antagonismo perpetuo ed irriducibile che esiste, anzi che «deve» esistere, fra i seguaci di Cristo ed il mondo (non il mondo materiale, che è creatura di Dio, ma l’unione degli errori, degli inganni, delle manovre tenebrose contro la verità e contro la giustizia), antagonismo così forte che ciò che è per i primi motivo di tristezza, è per il mondo motivo di gioia e viceversa. Senonchè, i primi incominceranno col dolore e finiranno col gaudio, mentre gli altri incominceranno col piacere e finiranno col dolore. E il gaudio ed il dolore non avranno fine. La verità è senza dubbio ostica per coloro che, dopo aver fatto del piacere, e solo del piacere materiale, lo scopo della loro esistenza; di aver riso del dolore altrui e di aver costruito la loro forza o sopra le debolezze altrui e le altrui sofferenze, vorrebbero che la loro felicità non avesse a finire o, quantomeno, che la smorfia, nella quale si dissolverà l’ultima risata, fosse senza seguito e che «con l’ultimo fiato finissse ogni cosa… come una farsa di pazzi» Schiller, I Masnadieri.
Perché è facile convincersi di una gioia che non venga mai meno; non altrettanto di un dolore senza fine e senza mitigazione. Eppure l’una eternità richiama l’altra, anzi sono due aspetti correlativi della stessa eternità, che è un’esigenza della divina Giustizia. Del resto, non c’è nulla di più chiaro di questa verità nell’insegnamento di Nostro Signore: basterebbero per convincersene, la profezia di Gesù intorno al giudizio finale e la parabola del ricco epulone. Nell’una e nell’altra la sanzione – di premio per i giusti e di castigo per i peccatori – è presentata come «eterna», senza possibilità di equivoco.
Verità che è fonte di immensa consolazione per chi vive la legge morale del Vangelo e che trova in essa la soluzione – l’unica soluzione – del problema del dolore; verità dura per coloro, che si sono fatta una legge del proprio egoismo e della propria sfrenatezza. È vero che questi si rifiutano di credere in una sanzione eterna e cercano di dare a se stessi l’illusione dell’impunità, ma il negarla non la elimina e, semmai, sono proprio coloro che la negano – non quelli che la temono – i più esposti a farne il tragico esperimento.
«Di immensa consolazione» dicevamo la certezza di una sanzione eterna di premio per i «giusti», per gli onesti, per coloro che combattono «come soldati di Cristo» la loro buona battaglia, per coloro che soffrono per stabilire o per consolidare il Regno di Dio nelle loro coscienze, nelle coscienze dei fratelli, nelle opere, nelle istituzioni, nelle leggi, in una parola, nella vita. Tale consolazione faceva dire a San Paolo, che ha sanguinato nelle membra e più ancora nel cuore per la diffusione del Vangelo: «Sovrabbondo di gaudio in mezzo alle tribolazioni» e a San Francesco: «Tanto è il bene che m’aspetto, che ogni pena m’è diletto». Tale consolazione sostenne nel suo spaventoso ed eroico martirio Padre Lazzaro da Sarcedo, che nella Pasqua del 1961, ha rivissuto una gran parte delle umiliazioni e dei dolori del Divino Paziente del Calvario. La concezione cristiana della vita è gioia e ottimismo. Lo è appunto per la certezza della gioia attraverso il dolore, per la sicurezza di un gaudio che non verrà mai meno.
Il messaggio evangelico è, quindi, un messaggio di gioia: dal cantico trionfale di Maria nell’incontro con la madre del Battista, al primo annuncio angelico ai pastori di Betlemme: «Vi annuncio una grande gioia»; dalla gioia dei Magi condotti dalla stella alla culla del Redentore, al grido riconoscente dei miracolati dal divino potere di Gesù; dall’estatica gioia degli Apostoli sulla montagna della Trasfigurazione, alla ineffabile dolcezza dei colloqui di Betania; dalla inebriante letizia della Risurrezione, all’esultanza della Ascensione al cielo. E poiché, un giorno, i Farisei rinfacciarono ai Dodici la mancanza di austerità, Gesù rivendicò per essi il diritto alla gioia per la sua presenza fra loro.
Ed è questa, infatti, la ragione profonda della gioia del cristiano: la coscienza che Gesù sia presente nel suo cuore con la sua grazia. Questa certezza fa superare ogni prova e dà la forza di vincere ogni dolore. «Non c’è, quindi, che una tristezza: quella di non essere Santi». Provvidenziale però questa tristezza: nell’economia della grazia è la spinta iniziale verso la redenzione; è la dinamica delle conquiste più nobili; è la promessa certa del gaudio.
Sia lodato Gesù Cristo.
Dixit Jesus, Mons. Fernando Prosperini Canonico Vaticano, 1963.
Colloquio Spirituale.
«Delizia mia , Signore del Creato e Dio mio, fino a quando dovrò aspettare per poterti vedere di presenza? Oh, vita lunga! vita amara! vita che non si vive! Oh, desolata solitudine a cui non si può por rimedio! Quando dunque, Signore? Quando? Quando?... Che farò io, mio Bene, che farò? Desidererò forse di non più desiderarti? Ah, mio Dio e Creator mio, Tu ferisci e non dai il rimedio; ferisci e le piaghe non si vedono; uccidi per lasciare più vivi! In una parola fai quello che ti piace dimostrandoti in tutto onnipotente... Sia così, Signore, perché Tu lo vuoi. Io non voglio altro che amarti.
«O Creator mio! Il mio immenso dolore mi fa uscire in lamenti e mi obbliga a riconoscere che sarà senza rimedio fino a quando non piacerà a te di porvi fine. Dal suo stretto carcere l'anima mia desidera la libertà, ma sempre a patto di non allontanarsi, neppur di poco, da quello che Tu vuoi. O fa', Gloria mia, che il suo spasimo aumenti, o apportale un rimedio radicale!
«O morte, morte, come ti si può temere se in te è la vita? Eppure chi non temerà dopo aver trascorso parte dei suoi giorni senza amare il suo Dio? E poiché questo è il caso mio, che cosa chiedo e desidero? Forse il castigo che ho meritato per i miei peccati? Non permetterlo, mio Bene, per il molto che ti è costato redimermi!
«Anima mia, lascia che si compia la volontà del tuo Dio, perché così ti conviene. Servilo e spera nella sua bontà, e quando avrai fatto penitenza dei tuoi peccati e n'avrai una po' meritato il perdono, Egli darà rimedio al tuo dolore. Non voler godere senza prima patire.
«Ma neppure questo sono capace di fare, o mio vero Re e Signore, se non mi sostieni Tu con la tua mano potente e con la tua grandezza. Aiutato invece da te, mi sarà facile ogni cosa» (T.G. Es.6).
Padre Gabriele di S.Maria Maddalena O.C.M. - 1893 - 1953
Intimità Divina, Roma 1962