1 Domenica di Avvento 2020
«Tu, Signore, sei nostro padre».
Lectio Divina Is 63,16b-17.19b.64,2-7.
Torna l’Avvento, in queste giornate corte, quando il buio sembra il padrone del mondo e la notte allunga la sua ombra su ogni cosa. Torna l’Avvento, come ogni anno, e rischia di diventare un’abitudine, un rito che si ripete stancamente senza dirci più nulla di nuovo. Ci accostiamo a questo brano del profeta Isaia, che la Chiesa ci offre per iniziare, ancora una volta, il cammino di Avvento...
Vogliamo provare a mettere in contatto la parte personale, più profonda e vera del nostro essere con il Signore, con la sua voce, la sua Parola, il suo respiro, il suo sguardo, il suo stesso Essere. Ci accostiamo non per rimanere al di fuori, ma per lasciarci accogliere dentro, nel cuore di questa Voce che ci parla, nella Chiesa, che ci parla nel cammino che oggi iniziamo per giungere al Natale. Occorrerà tenacia, desiderio, passione; occorrerà pazienza e attesa, vigilanza e fatica, ma tutto questo non sarà vano, né inutile. Il Signore, certamente, aprirà. Il nostro sguardo sarà fisso sul testo di questa profezia di Isaia, sia nella traduzione italiana, sia nella lingua originale ebraica, ma senza pretesa di capire tutto e di dare significato a tutto. Staremo attenti ad alcune parole che si presentano con maggior insistenza e che sprigionano una tale luce, da lasciarci affascinati. E questo percorso lo faremo stando nella comunione, nell’incontro con il Signore Gesù, Colui che viene in questo Natale, Colui che noi cerchiamo e attendiamo. La nostra Via è proprio Lui, il vero Figlio, il primo Figlio. Via da percorrere per giungere al Padre, per incontrare il Padre, per lasciarci amare dal Padre. Allora, iniziamo ad entrare nel testo, nelle parole della divina Scrittura.
«Tu, Signore, sei nostro padre».
Queste parole, che sembrano uscire direttamente dal cuore, aprono e chiudono tutto il brano, raccogliendolo come in un unico respiro, un unico abbraccio. Siamo davanti a una preghiera rivolta al Padre; siamo coinvolti in un dialogo aperto tra padre e figli. E sentiamo subito, appena iniziamo a leggere queste righe, che il tono è concitato, animato, intenso. Il discorso era già iniziato prima, nei versetti precedenti, scandito da un susseguirsi incalzante di domande, o meglio, della domanda per eccellenza: «Signore, ma Tu dove sei?». Domanda che suppone, che porta dentro di sé tutta l’intensità del grido di pianto di chi si sente abbandonato da Dio, di chi sente dimenticato e solo: «Signore, Tu non ci sei, per me; io non esisto per te!». Il profeta, che la tradizione esegetica ha fissato nella persona del cosiddetto Terzo Isaia, al quale sono attribuiti gli ultimi 10 capitoli del Libro, in questo punto della sua profezia, sta ripercorrendo la storia di Israele, con lo sguardo puntato sull’opera misericordiosa di Dio, sul suo amore paziente, che è andato a cercare i figli in Egitto e li ha liberati dalla schiavitù per portarli alla libertà della Terra promessa. E allora, dopo tanta grazia, dopo tanto amore, con il quale li ha guidati e accompagnati in mezzo a tutte le prove possibili, perché ora Egli tace, si trattiene, si tiene a distanza? Le ultime parole del profeta, proprio prima del versetto che apre il nostro brano, sembrano un vero rimprovero a Dio, al Padre: «Verso di me tu ti sei trattenuto, ti sei chiuso!» Is 63,15. Compare qui un verbo molto bello, «afàq», dal quale nasce anche il sostantivo corrispondente che significa «canale per l’acqua». Ma come? Il Padre della misericordia, il Padre dal grembo colmo di compassione, quasi fosse un mare incontenibile, ora rimane chiuso?
Il canale d’acqua viva, che allietava il cuore dei figli, ora rimane secco?
Da questa esperienza così amara e triste, da questa profonda solitudine, dalla constatazione di questa assenza del Padre, parte la preghiera che ascoltiamo nel brano di questa I domenica di Avvento. «Tu, Signore, sei nostro padre». Vale la pena veramente provare a contattare, una per una, queste parole così semplici e così intense. Parole di fuoco, parole di carne, parole di cuore. «Tu», prima di tutto, prima di qualsiasi altro nome, prima di chiunque altro, prima di tutte le presenze possibili. «Tu», dice l’uomo al suo Dio, dice il figlio al Padre suo. «Tu» e non altri, «Tu» e nessun altro, a questa profondità del mio essere, del mio esistere. «Tu», principio e fine. Sì, perché l’ebraico usa proprio la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto per dire tu: «alef e taw»; e unisce queste due lettere alla «he», lettera divina, che compare due volte nel Nome Sacro di Dio: «Jawhè» e che diventa, nella tradizione ebraica, il segno, la presenza del respiro, perché quasi non si ode, quando viene pronunciata. La «he» è un soffio, un alito appena, ma è tutta la vita di Dio. Dire «tu» a Dio, al Padre, per noi è vivere, è ritrovare il respiro per continuare a stare sulla scena del mondo, ogni giorno, ogni mattina, anche in mezzo alle prove più soffocanti, ai dolori più amari, alle solitudini più dense. Lui, il Signore, comunque c’è ed è respiro, è soffio che fa vivere. Questo ci dice Isaia, offrendoci la sua profezia in questo cammino verso il Natale. E ancor più questo Tu ci è rivelato come Padre, «padre nostro, avìnu». La parola padre, «av», si scrive, in ebraico, con le prime due lettere dell’alfabeto, «alef e bet».
Come bimbo che appena sa sillabare, che ha solo imparato i primi suoni, noi pronunciamo questo nome, noi cerchiamo, invochiamo, desideriamo questa presenza.
Il Figlio Gesù nasce per insegnarci a chiamare Dio col nome di Padre.
E così, anche solo appena affacciati sulle parole sante di questo brano di inizio Avvento, ci è dato di raccogliere e ricevere ciò che di più prezioso e vitale si possa immaginare o pensare. Una manciata di lettere, esauribili in un unico alito, appena un tu, appena un nome, Padre … Ma qui c’è tutta una vita, qui è scritta tutta la nostra storia di amore con Dio. Tratteniamo queste due parole tanto semplici, scriviamole sulle tavole di carne del nostro cuore, lasciamole entrare negli spazi più intimi della nostra memoria, del nostro ricordo, ripetiamole quanto è possibile. Siano la nostra preghiera di Avvento, il nostro cammino verso il Natale: «Tu Padre!». Questo è quello che si sperimenta quando si viene presi per mano, quando si viene accarezzati o abbracciati da qualcuno; ha a che fare con lo scambio degli sguardi, col sentire gli occhi di qualcuno posati con attenzione e amore su di noi, sulla nostra vita. Tutto questo sta chiedendo l’orante a Dio, con le parole di Isaia. nessuno mai ci ha raccolti così, dice il profeta.
Nei successivi due versetti - non presenti nella scelta liturgica di oggi -, il profeta mette in evidenza con una intensità crescente la disperazione di Israele: non solo è stato distrutto il santuario, distrutto dai babilonesi nel 587, ma Israele ha la sensazione di essere stato abbandonato completamente da Dio. Infine torna la richiesta pressante perché Dio intervenga dall’alto: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!». I cieli chiusi sono un’immagine per indicare la mancanza di comunicazione tra Dio e il suo popolo. La richiesta di un nuovo intervento di Dio evoca le immagini tipiche del rivelarsi di Dio, quando Jhwh era disceso sul Sinai e il monte era stato scosso dal terremoto Es 19,18.
Ma ora sì, questo è possibile, questo è preparato per noi!
Il tempo dell’Avvento ritorna per dirci questa verità. Non Abramo, non Giacobbe, non Mosè, ma il Signore stesso, il Figlio fatto uomo, uno di noi, compirà tutto questo. E saremo conosciuti, guardati con amore fedele, amore certo. Amore di Padre, Padre nostro, «Avìnu».
E passiamo direttamente al versetto finale.
«Ma, Signore, tu sei nostro padre;
noi siamo argilla e tu colui che ci plasma,
tutti noi siamo opera delle tue mani».
Mi sembra molto bello l’avverbio nel testo originale che apre questa Parola conclusiva della preghiera: «E ora». Sì, adesso le cose sono cambiate, nulla è più come prima. C’è un «ora», un «adesso», che rende possibile una vita nuova, diversa. Ritornano le stesse parole che abbiamo incontrato al principio, però in ordine diverso. Rimane ancora il «tu», risuona il dolce nome «Padre nostro» e così capiamo che è proprio questa realtà, questa presenza che ci fa vivere, che continua a dare senso al nostro esistere. Capiamo, ancor più, che noi siamo solo in riferimento a questo Tu. La Parola di Dio, con tutta la sua semplicità e bellezza, pone davanti ai nostri occhi la meraviglia del mistero d’amore del quale siamo resi partecipi, il mistero del Tu di Dio accanto a noi, del Tu di Dio che genera il nostro noi. Il noi che leggiamo ora sulle righe del profeta Isaia ha la possibilità di esserci, di venire pronunciato, unicamente in forza di quel Tu, che respira, che vive, che ama davanti a noi. E si vede bene, nel testo originale ebraico, ma anche nella traduzione letterale, che il Tu abbraccia, accoglie, protegge il noi, che qui fa sentire la sua voce. «Tu, noi l’argilla e Tu…». L’incontro col Padre, il nostro stare davanti a Lui, come il Tu della nostra vita, del nostro cuore, del nostro cammino, ci dà la possibilità di trovare la nostra più vera felicità.
«Argilla», dice Isaia, chòmer» -, dando, così, volto alla nostra persona, alla nostra storia. Terra impastata di amore, fango accarezzato dalla Sua compassione sconfinata, instancabile, che mai ci lascia, mai ci dimentica. Argilla, materia povera, fragile, che si lascia prendere fra le mani del vasaio per venire modellata secondo un disegno, secondo un sogno che l’artista porta dentro di sé. Occorre scendere, insieme al profeta Geremia, nella bottega del vasaio, secondo l’invito a lui rivolto dal Signore. Sì, occorre scendere laggiù, perché solo lì, solo in quel luogo sacro, che è come il nostro stesso cuore, noi possiamo vedere e comprendere veramente cos’è la nostra argilla, il nostro prezioso e amato fango. Geremia ci aiuta a penetrare nel mistero, toglie il velo e ci descrive l’opera dell’artista, del vasaio divino e dice che Lui è lì, nel suo segreto, lavora al tornio, o meglio lavora «sopra le due pietre». Anche questo tempo santo di Avvento è un’occasione per rinascere, per ricominciare a vivere in pienezza. Lasciamoci portare sulle due pietre e abbandoniamoci alle mani esperte del Padre! Non è certo un caso che la parola «pietra, in ebraico éven», - sia scritta con le stesse lettere della parola «padre». Le due pietre, il tornio del vasaio, non sono altro che le braccia del Padre. Proviamo a pensare alla meraviglia di questo grande mistero, il mistero della nostra esistenza fra le mani di Dio; proviamo a scendere, a lasciarci prendere nell’abbraccio di questa creazione nuova; proviamo a stare qui, così come siamo, argilla povera e preziosa, amata e attesa da sempre e finalmente ritrovata!
Solo che c’è un problema: la parola «chomer-argilla», non è così dolce e tranquilla! La radicale «chet», con la quale essa incomincia, vuol dire «steccato, ostacolo, barriera» e ancor più, le altre due sue lettere, cioè la «mem e la resh», formano insieme la parola «amarezza». «Chomer», la barriera pesante e oscura di tutti i problemi, le difficoltà, le pene, le solitudini! Chi potrà mai superare tutto questo? Chi ne verrà mai fuori? Come dice Giobbe, gridando a Dio: «Ricordati, orsù!, che come argilla mi hai plasmato!» Gb 10,9. Sì, Dio si ricorda, Dio non ci dimentica! Lo dice Lui stesso: «Anche se tutti si dimenticassero, io non ti dimenticherò mai!» Is 49,15.
Dove inizia il cammino dell’Avvento, se non in questo ricordo del Padre per noi?
Se non nella discesa del Figlio, che viene a portare con sé tutti i fratelli, oltre l’ostacolo dell’amarezza, oltre la barriera dell’assenza, fin dentro il grembo della comunione col Padre, per la quale noi, sua argilla, siamo resi sua terra promessa, suo giardino? Sì, anche dentro l’amarezza delle nostre quotidiane fatiche, dentro il buio delle nostre solitudini, a noi è data la possibilità di scoprire i segni di un Amore più grande. L’Amore di «Avìnu», il Padre nostro, che vuole venire a cercarci, a incontrarci, anche in questo Natale.
Sia lodato Gesù Cristo.