Preghiera e Liturgia

Presentazione di Gesù al Tempio

CandeloraCandelora e San Biagio.
«Luce per illuminare le genti
» cfr. Lc 2.30-32.

Quest'anno il calendario civile incrocia quasi il calendario liturgico e ha posto di sabato una festa del Signore poco conosciuta: la Presentazione di Gesù al Tempio; in questo giorno, fin dai tempi antichi, si benedicevano le candele per tutto l'anno, a significare la luce delle nazioni di cui parla il vecchio Simeone: la presenza del Signore Gesù; un forte richiamo Pasquale, quello di oggi, a ricordarci della luce del Signore Risorto simboleggiata dal cero pasquale. 

 Era una festa, che si presentava con solennità, quella della Presentazione di Gesù...
e della purificazione di Maria. Veniva chiamata, ed è ancora chiamata, «la Candelora»... centrando tutto il significato della liturgia sulla benedizione e sulla consegna delle candele, che poi venivano portate a casa e usate nei modi più svariati: chi la metteva in testa al letto, a ricordarci che, senza la luce di quella candela, si cammina nel buio. Una autentica esortazione a vivere la fede, che abbiamo professato il giorno del nostro Battesimo, quando siamo stati presentati al Padre e quindi impegnati a vivere da figli, con gioia e gratitudine. In altri casi quella candela veniva accesa quando qualcuno era ammalato o stava per tornare alla vera Casa, come a presentarsi a Dio con la fede viva, la vera luce, che accompagna la vita del cristiano nella vita. E vi è infine chi la usa per allontanare pericoli nelle campagne o altro.
 
Un po’ di storia all’origine di questa festa.
La festa, come altre nella liturgia, ha un’origine pagana. Il mese di Febbraio era quello che chiudeva l'anno: il termine «Februarius» -derivante da “februa”- significa «purificazione». Il quindicesimo giorno di Februarius venivano inaugurate le festività in onore del Dio Luperco che, secondo la tradizione, sorvegliava le greggi e le proteggeva dall'assalto dei lupi. Il culto di Luperco era molto importante ed i suoi sacerdoti, godevano di gran prestigio. Durante questo rito, i sacerdoti, definiti «Luperci» - scacciatori dei lupi -, sacrificavano delle pecore in una grotta ai piedi del Palatino dove, secondo tradizione, la lupa avrebbe allattato Romolo e Remo. Con il sangue di pecora toccavano poi la fronte di due ragazzi di origine patrizia, che detergevano subito dopo con un panno di lana, imbevuto di latte. A quel punto i due ragazzi dovevano indossare le pelli degli animali sacrificati; con la medesima pelle venivano realizzate delle striscie - dette februa - con le quali, correndo attorno alle pendici del Palatino, dovevano percuotere chiunque incontrassero, in particolare le donne, che si offrivano volontariamente ad essere sferzate per purificarsi e ottenere la fecondità. La comunità intera, così facendo, si purificava e si preparava ad accogliere la primavera ed i suoi frutti.
 
Papa Gelasio I nel V secolo ottiene il permesso dal Senato di Roma e sostituire i lupercalia con la Festa delle Candele, mantenendone il significato di rito purificativo e dedicandolo però alla Vergine. Il nome venne cambiato in «Festa delle Candele», come simbolo della purificazione. Ma la Festa delle Candele è stata importata anche dall’Oriente. Nel IV secolo d.C. la pellegrina Egeria ci attesta la presenza di questo rito a Gerusalemme. La festa della Presentazione di Gesù è tra quelle - poche in verità - celebrate assieme dalle Chiese Cristiane di Occidente e di Oriente. Era chiamata il «Solenne Incontro»: una processione per le strade della città ricordava il viaggio della Santa Famiglia da Betlemme a Gerusalemme con Gesù appena nato. Ancora oggi la santa liturgia prevede la processione, cui, si è aggiunta, dal X secolo, anche la benedizione delle candele, che ha dato il nome popolare di «Candelora» a questa festa. 

 
E ora torniamo al nostro brano del Vangelo.
Luca si collega alla legge di Mosè: la madre, 40 giorni dopo la nascita del primogenito, doveva presentarlo al tempio e offrire in sacrificio al Signore, per la sua purificazione, un agnello oppure una coppia di colombe. La consacrazione del primogenito ricordava al popolo d'Israele il primato di Dio sulla vita e sulla creazione. Maria e Giuseppe, obbedienti alla legge di Mosè, portano Gesù nel Tempio per consacrarlo al Signore. Sono poveri e non potendo acquistare l'agnello per il sacrificio offrono una coppia di colombe – la tariffa prevista per le famiglie povere - ma in realtà donano a Dio il «vero agnello» per la salvezza del mondo. Fa una certa impressione vedere la famiglia di Nazareth compiere questo gesto, il Bambino Gesù questo Dio che non si sottrae al gesto dell'alleanza, che asseconda le tradizioni, che si riconosce nell'esperienza del popolo di Israele. Giuseppe e Maria sono ancora stupiti degli eventi accaduti durante la nascita di Gesú, e restano di nuovo sconcertati dalla presenza del vecchio Simeone, un habitué del Tempio che riconosce in questo neonato la presenza stessa di Dio. 

 Simeone significa «Dio ha ascoltato». Lo Spirito Santo è su di lui, egli ascolta la Parola. Solo gli uomini illuminati dallo Spirito sanno spiegare la Scrittura e giudicare gli eventi della salvezza. Le braccia di Simeone rappresentano le braccia bimillenarie di Israele che ricevono il fiore della nuova vita, la promessa di Dio. Il Cantico che Simeone proclama si pone sulla linea della tradizione biblica: «Io ti renderò luce delle nazioni, perché tu porti la mia salvezza fino all'estremità della terra» Is 49,6. Ora si compie quanto era stato predetto: «Alzati, rivestiti di luce, la gloria del Signore brilla su di te. Poiché, ecco, le tenebre ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le nazioni; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare in te. Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere» Is 60,1-3. Il nome della profetessa e quelli dei suoi avi significano «salvezza e benedizione». Anna vuol dire: «Dio fa grazia»; Fanuele: «Dio è luce»; Aser: «felicità». 
I nomi hanno un significato. E qui il loro significato illumina e immerge tutto nello splendore della gioia e della grazia di Dio. Il tempo messianico è tempo di luce piena. Illuminata dallo Spirito Santo, anche Anna riconosce il Messia nel bambino che Maria porta al tempio. Come Simeone, loda Dio e parla di Gesù a tutti quelli che aspettano la redenzione di Gerusalemme. Simeone e Anna sono il simbolo della fedeltà del popolo che aspetta con fiducia la venuta del Messia; la costanza e la perseveranza di molte persone anziane che con la loro fede semplice, ancora, ogni domenica, frequentano le nostre comunità, investite dai radicali cambiamenti del nostro tempo.
 
Simeone è il simbolo dell'uomo che aspetta, perché la vita è desiderio, la vita è cammino, la vita è attesa. Attesa di luce, di salvezza, di un qualche senso che sbrogli la matassa delle nostre inquietudini e dei nostri «perché». Quante volte incontro persone che sono deluse per non aver scelto, per avere fatto dei progetti che gli si sono sbriciolati in mano. A loro, a me, Simeone insegna a perseverare, ad affidarsi, a capire che la vita vera è oltre, è altrove, è di più dei risultati che riusciamo a conseguire, dei sogni che riusciamo a realizzare. Bellissima la preghiera di Simeone: «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua Parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo, Israele» Lc 2,29-32. Ora è felice, ora ha capito, ora può andare, ora tutto torna.
 
La vita è così: bastano tre minuti per dare senso e luce a tutta una vita, tre minuti per dare luce ad una vita di attesa. L'importante è avere un cuore spalancato, pronto. Incontrare Gesù o intuirne la presenza, avere fede e sperare significa proprio mettersi in ascolto e attendere, anche tutta la vita se necessario. Certo: è duro perseverare nell'attesa, eppure è una scommessa che tutti siamo invitati a compiere perché la nostra vita diventi attesa di una risposta che infine colmi il cuore. Simeone vede la luce: la luce c'era, già esisteva e lui la vede, lui se ne accorge. La fede è un evento di apertura, è un accorgersi perché davanti al sole possiamo ostinatamente tenere gli occhi chiusi e dire: il sole non esiste. Chiediamo al Signore che apra i nostri occhi e il nostro cuore al bene che risplende nelle pieghe del nostro martoriato e fragile mondo. A Maria Simeone profetizza sofferenza. E lei, che crede nella follia di Dio, si trova ora, per la prima volta, davanti alla misura della sua scelta. Maria sa che accogliere Dio le costerà fatica… e tanta! Sa che ormai la sua vita è e resterà diversa. Eppure crede, aderisce, acconsente. Perché amare vuol dire, in certe occasioni, patire. Sia lei, oggi, a insegnarci a vivere l'amore fino alla fine, a imparare a donare tutto di noi, perché l’amore è dono, il dono più grande.

Sia lodato Gesù Cristo.

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