Preghiera e Liturgia

Pater Noster qui es in caelis

Italiano«Pater Noster qui es in caelis» Gennaio 2019.
«Voi pregate così: Padre nostro che sei nei cieli» Mt 6,9.

La preghiera del Padre Nostro, insieme con quella dell’Ave Maria, è certamente la prima pagina di Vangelo che abbiamo imparato a memoria fin da quando eravamo bambini. Ma resta preghiera e parola evangelica carica di sorpresa: è ogni volta nuovo, misterioso e spesso non arriviamo a coglierne tutta la ricchezza. Possiamo considerare il Padre Nostro una sintesi del Vangelo: Tertulliano lo chiamava breviarium totius Evangelii. Infatti, è preghiera che riassume tutto il Vangelo; e, se lo comprendiamo bene, ci accorgeremo che il Padre nostro poteva dirlo soltanto Gesù e solo lui poteva insegnarlo. Perché c'è una corrispondenza perfetta tra Padre Nostro, insegnamento evangelico, vita di Gesù Figlio di Dio morto e risorto per noi. E ancora è bello ricordare ciò che diceva santa Teresa di Gesù Bambino, quando raccontava: «Qualche volta, quando il mio spirito è in una tale aridità che mi è impossibile tirar fuori un qualunque pensiero per unirmi al buon Dio, io recito molto lentamente un Padre nostro; allora questa preghiera mi rapisce, nutre la mia anima ben più che se l’avessi recitata precipitosamente un centinaio di volte» Manoscritto C, 318. 
Vogliamo anche noi entrare nello spirito di questa preghiera e comprendere sempre di nuovo quanto ha da suggerirci. Vedremo il contesto del Vangelo in cui è inserita, nella doppia versione che ci è tramandata dagli evangelisti Luca e Matteo.
Oggi, ci fermeremo sulla invocazione che apre la preghiera. Nelle prossime Domeniche ci fermeremo sulle invocazioni, domande che scandiscono il percorso del Padre nostro: itinerario di vita evangelica per il discepolo, come vita di figli e di fratelli.
I primi due versetti del Vangelo sono di Luca al cap. 11.
Il Padre Nostro è insegnato durante il viaggio di Gesù a Gerusalemme. E proprio a Gerusalemme c’è una tradizione, testimoniata dalla Chiesa del «Pater Noster», la preghiera sarebbe stata insegnata là, sul Monte degli Ulivi, poco prima della fine della vita di Gesù. Il Santuario del Pater e il Convento Carmelitano sono stati fondati nel 1875 sulle rovine di una chiesa del XII secolo. Il Vangelo di Luca pone l’insegnamento del Padre Nostro ai discepoli subito dopo la visita di Gesù nella casa di Marta e Maria a Betania. Qui sono presentate, le traduzioni del Padre Nostro, la preghiera che Gesù ci ha insegnato, in oltre 150 lingue di tutto il mondo. I visitatori in genere non se accorgono, presi come sono dalla curiosità di passare in rassegna i testi nelle varie lingue disposti sulle pareti, ma la versione del Padre Nostro che la maggior parte dei pellegrini può leggere nella propria lingua nei corridoi del chiostro e in altri ambienti antistanti l'omonima chiesa sul Monte degli Ulivi a Gerusalemme, è quella dell'esattore delle tasse, l'apostolo ed evangelista Matteo, e non la versione di Luca. Eppure la tradizione del luogo è legata proprio a quest’ultimo. In una fonte gnostica del terzo secolo, gli Atti di Giovanni, si fa riferimento a una grotta sul Monte degli Ulivi dove si ricorda l'insegnamento di Gesù, ma non si parla del Pater. Dopo il racconto della sosta presso l'abitazione delle sorelle di Lazzaro, nel Vangelo di Luca si legge: «Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli. Ed egli disse loro: Quando pregate dite: Padre…». Quel luogo, visto che Gesù era diretto nella Città Santa, doveva trovarsi tra Betfage e Gerusalemme.
La ragione dell'esposizione permanente dei Pater in più di 150 lingue affonda le sue radici in una tradizione che risale al periodo crociato.
Un pellegrino, nel 1102, racconta di aver sentito parlare di una tavola di marmo con inciso il Padre Nostro in lingua ebraica. Un altro, nel 1170, testimonia di averne vista una in lingua greca sotto l'altare della cappella crociata; dagli scavi emerse una versione in latino. La Chiesa del Pater Noster è meta di pellegrinaggio oggi molto frequentata. Quei testi scritti in tante forme di scritture, che talvolta si scrivono da sinistra a destra talvolta all'inverso, sono la testimonianza che quell’unica preghiera si eleva in tutto il mondo in tante lingue pur rimanendo unica. In Terra Santa capita spesso di partecipare a funzioni religiose dove si alternano letture e preghiere in varie lingue. Si passa dal latino all'arabo, dall'italiano all'inglese, dallo spagnolo al francese, dal polacco al tedesco, dal russo all'ebraico. Questa prassi appare normale per chi vive in questa terra. Altrove un'esperienza del genere la si fa nei grandi raduni, come in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù, o nei Santuari che accolgono pellegrini di tutto il mondo. Se nel susseguirsi delle varie parti della liturgia, di volta in volta, alla lingua liturgica principale (latino o arabo) si alternano le varie lingue, accade che al momento del Pater ognuno preghi nella propria lingua. È come se le persone si ricavassero uno spazio più proprio. Si pensi a un pellegrino di un qualsiasi Paese, fino a quel momento avrà pregato in inglese, ma al momento del Pater no, ritorna alla propria lingua, non solo perché il Pater gli sgorga dal cuore come da una sorgente, ma anche perché quella preghiera gli fa rivivere in quegli istanti in modo più profondo la sua storia, l'appartenenza alla sua cultura di origine, alla sua Chiesa. Quella preghiera che il Maestro insegnò ai suoi discepoli è sua e l'ha appresa nella sua lingua, da piccolo o da adulto non importa. Prima o dopo il Pater i gesti dei fedeli sono per lo più identici, non è così quando affiorano le prime parole «Padre nostro». C'è chi alza il volto al cielo, oppure solo gli occhi insieme alle mani, chi porta le mani giunte più vicino al petto, qualcuno allarga le braccia di più, qualche altro di meno. In una parola ciascuno personalizza la preghiera. Forse in quei pochi istanti si rivela in maniera più tangibile l'universalità della Chiesa: si prega in uno stesso luogo in diverse lingue, ognuno prega nella propria lingua e ascolta parole che non conosce, ma sa che sono le sue stesse parole. A un pellegrino attento, che percorre gli ambienti dove quell'unica preghiera si presenta allo sguardo sotto tante e varie forme di scrittura, non sfugge il messaggio di universalità che intende trasmettere. Nel caso abbia tempo, può fermarsi a guardarle una per una e, per quanto possa essere eclettico in fatto di lingue, quante ne leggerà? Potrà rimanere meravigliato ed entusiasmarsi nell'intimo, di avere come la sensazione di sentirsi in comunione con uomini e donne di ogni angolo della Terra, ed è una qualcosa di meravglioso. Ma se prova ad immaginare che, all'improvviso, davanti ad ogni riquadro che incornicia il Pater dovesse apparire un fedele che parla quella lingua, e ad un segnale tutti nel medesimo istante dovessero iniziare a pregare con «le parole che Gesù ci ha insegnato», ecco, in quell'istante quella percezione diventerà realtà, svelandogli come per rivelazione ciò che già vive, la comunione della Chiesa.
Un grande appassionato del Pater, Francesco d'Assisi, intuì in pienezza questa realtà. In una sua Lettera ai fedeli [201] scrive: «Oh come è glorioso e santo e grande avere in cielo un Padre!». Nel suo significato più profondo l'insegnamento del Pater rappresentò una tappa significativa per la fede cristiana già prima della risurrezione.
«Gesù si trovava in un luogo a pregare» Lc 11,1a.
Di questa esperienza i discepoli sono stati testimoni e a questa esperienza chiedono ora di partecipare. Proprio in una di queste occasioni, «quando ebbe finito uno dei suoi discepoli gli disse: "Signore, insegnaci a pregare"» 11,1b. Non è facile capire che cosa il discepolo chiedeva veramente. Possiamo pensare che la richiesta riguardi il contenuto, il modo e l’atteggiamento della preghiera. La preghiera è breve: tre versetti, cinque domande espresse in modo lapidario.
Matteo colloca il Padre nostro nel quadro del Discorso della montagna, che comprende i capitoli 5-6-7 del suo Vangelo. Dopo il cap. 5, Gesù passa, nel cap. 6, a descrivere tre atti di culto: elemosina, preghiera e digiuno. In tale contesto, nel secondo atto di culto, è inserito il Padre Nostro. Preghiera più lunga di quella di Luca. Matteo ha parole più arcaiche, Luca ha il contenuto più antico. Gli esegeti fanno inoltre notare che la preghiera in Luca è la terza di tre brani successivi: la parabola del samaritano, la carità Lc 10, 29-37; il dialogo con Marta e Maria, l'ascolto della Parola Lc 10,38-42; la preghiera del Padre nostro Lc 11,1-4. Quasi a mettere in luce che carità, ascolto della Parola e preghiera sono inscindibili. In Matteo c’è una cosa interessante: il Padre Nostro sembra stare esattamente al centro del Discorso della montagna. È un insegnamento per noi, perché siamo ammoniti che il Discorso della montagna lo vive colui che prega così. Il preambolo del Padre Nostro ci porta a riconoscere che noi oggi possiamo pregare da figli perché lui ha pregato così, e impariamo a pregare inserendoci nella sua preghiera. Suscita sempre sorpresa pensare che preghiamo le parole che Gesù stesso ha pregato; le stesse parole che poi hanno accompagnato la preghiera di generazioni di discepoli. Così, nella chiesa, la domanda sulla preghiera nasce quando vediamo altri pregare, quando vediamo l’intensità della loro preghiera: si impara a pregare sempre da altri e pregando insieme. La domanda dei discepoli ci suggerisce, inoltre, che per imparare a pregare bisogna volerlo e chiederlo. Pregare è, a un tempo, disposizione personale e dono dello Spirito Rm 8,26-27.
Il Padre Nostro manifesta subito qualcosa di paradossale. Da una parte contiene parole semplicissime, quotidiane: il nome, il pane, il perdono, la tentazione… tutte parole chiave del NT. Dall’altra parte, pur sembrando semplici, sono parole di una estrema profondità, inesauribili nel loro significato, allusive di tutta la realtà di Dio e, in qualche modo, comprensive di tutta la narrazione evangelica. Se ora guardiamo a come procede la preghiera troviamo che si apre con un appellativo, l’invocazione «Padre», che costituisce l’atmosfera di tutta la preghiera. A questa fanno seguito una doppia serie di domande: la prima punta l’attenzione su Dio, quelle qualificate da «tuo», che orientano a mettersi in sintonia con il Padre, a entrare nel suo orizzonte, nel suo modo di pensare, di sentire, di volere; la seconda guarda alla condizione di vita del discepolo, le domande qualificate con «nostro», che chiedono la presenza del Padre per poter sostenere il cammino della vita presente.
L’invocazione di apertura: «Padre» «Padre nostro che sei nei cieli».
La preghiera non può che iniziare così. E dire «Padre” non significa fare uno sforzo di immaginazione o avere una certa idea di Dio; significa più semplicemente entrare nel modo di pregare di Gesù. Tutte le sue preghiere cominciano così: «Padre» Mt 11,25; Mc 14,36; Lc 23,34.46; Gv 17. Se ogni preghiera di Gesù inizia così vuol dire che questa è l’atmosfera che pervade ogni preghiera, l’orizzonte nel quale va collocata. Lode, domanda, intercessione vanno sempre pesante rivolte al Padre e vissute nella relazione con il Padre, non con un Dio generico, dal volto nascosto. Va colta l’originalità della preghiera di Gesù. Certamente non manca nella preghiera dell’AT la comprensione della paternità di Dio, la percezione della sua vicinanza e la confidenza che questa suscita; tuttavia nessun Salmo inizia così e se in alcune preghiere dei testi sacri ci si rivolge talora a Dio come Padre, un inizio così secco è unico!
La parola «Padre», poi, non è univoca, può avere tanti significati ed evocare molte emozioni, anche esistenziali. Padre è colui che dà la vita, che nutre, protegge, è colui che educa, anche con forza, correggendo Eb 12,7-11, è colui che dà identità collocandoci dentro una famiglia e una tradizione… Tuttavia questo non è sufficiente per dire il contenuto della parola Padre, così come l’ha espressa Gesù. Lo possiamo comprendere solo guardando alla vita di Gesù e a come dalla sua vita traspare la singolarità della sua relazione a Dio, che lui chiama Padre. Pensiamo al racconto del Battesimo, alla voce dal cielo che dice: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto» Mt 3,16-17. Per dire «Padre» occorre perciò che qualcuno mi chiami «Figlio». Padre non è la prima parola, è la seconda. La prima è quella di chi dice: «Figlio, figlio mio carissimo, figlio mio amatissimo». Padre è soprattutto Dio Padre di Gesù Cristo, è Colui che Gesù chiama Padre e da cui è chiamato Figlio. Lo affermerà poi Paolo: «Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: "Abbà, Padre!"» Rm 8,15.
Matteo, all’appellativo «Padre», aggiunge «nostro», a sottolineare che è una preghiera collettiva, recitata insieme. Dicendo «Padre nostro» sentiamo vicini tutti: uomini e donne, a qualsiasi tradizione, cultura, religione, credo appartengano, qualunque sia la loro condizione esistenziale.
Ancora Matteo aggiunge «che sei nei cieli»; espressione che serve per distinguere il Padre celeste da quello terreno, ma soprattutto invochiamo con queste parole il Padre che vive nel mondo della trascendenza, nel mondo definitivo, nel mondo delle cose che non passano mai più; quel Padre che vive nella luce perenne, in cui non c’è più ambiguità, non c’è più insicurezza, non c’è più peccato. Se ci guardiamo intorno, siamo come affaticati, e talora oppressi, dal cumulo di ingiustizie che ci circondano e delle quali, volere o no, siamo parte; proclamando «Padre che sei nei cieli» affermiamo che c’è una situazione in cui non c’è più ingiustizia, né lacrime, né amarezze, né incomprensione, e tutto è chiarezza, bellezza, purità. Ecco dunque che l’invocazione iniziale del Padre Nostro è capace di nutrire, sostenere, confortare il nostro animo: ci mette nella condizione giusta, dal giusto punto di vista sulla nostra vita, sulla vita delle persone che ci sono care, dà il giusto sguardo sulla storia e sul mondo.

Sia lodato Gesù Cristo.

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